Green pass sul posto di lavoro: non siamo gli unici
Di Luca Menichino
Molti criticano il Governo perché l’Italia sarebbe l’unico paese ad aver imposto il Green Pass sul posto di lavoro. In realtà si tratta di una valutazione distorta, che non tiene conto di diverse circostanze di contesto.
In primo luogo, è curioso che le critiche non provengano dal mondo scientifico, ma da altri soggetti privi di competenza, a partire da alcuni giornalisti o professori di filosofia o di storia medievale. Prima di prendere posizione occorre capire se le misure del Governo siano proporzionate e ragionevoli rispetto alla situazione vaccinale ed epidemiologica italiana, circostanza su cui è senz’altro preferibile l’opinione di esperti che, guarda caso, non hanno voci dissonanti.
Fatta questa premessa di carattere generale, sulla base dei dati pubblici, gli scienziati concordano unanimemente che oggi è necessario aumentare significativamente la soglia delle vaccinazioni (prima giudicata pari al 70%, oggi in misura superiore al 90%) per contrastare un virus soggetto a varianti sempre più pericolose. In Italia lo hanno detto Crisanti, Ricciardi e Pregliasco ma è un tema riconosciuto a livello globale e, solo a titolo esemplificativo, questa stessa valutazione è stata riconfermata anche il 13 settembre scorso dalla Johns Hopkins, una delle Università americane più accreditate e dall’Imperial College. Tra i vari problemi riscontrati in termini di pericolosità del virus c’è la resistenza degli “esitanti” – che riducono il numero dei vaccinati – e il fatto che, sino a quando non saranno disponibili vaccini per tutte le età, il virus circola nella popolazione al di sotto dei 12 anni non vaccinabili, il che, purtroppo, costituisce un serbatoio rilevante a favore della pandemia.
Quando è stato introdotto il green pass nel mondo del lavoro l’Italia aveva vaccinato con due dosi circa il 64% della popolazione, una soglia giudicata insufficiente a combattere il virus, anche tenuto conto che i prossimi mesi il paese resterà aperto e le attività sociali si svolgeranno al chiuso, con un incremento del rischio di contagio (la delta è giudicata 100 volte più contagiosa delle precedenti varianti).
Non solo: in Italia esistono 10 milioni di non vaccinati e circa 3.3 milioni di over 50 non vaccinati, questi ultimi giudicati a forte rischio ospedalizzazione. In Italia gli over 50 vaccinati sono circa il 75%, mentre nel Regno Unito, nella medesima categoria, sono circa il 95%, sulla base dei dati del NHS. I vaccinati italiani sono senz’altro sotto soglia.
Di conseguenza – ad oggi – l’esigenza di incentivare fortemente la soglia delle vaccinazioni appare giustificata dalla situazione, proprio per impedire che la campagna fallisca e favorisca le mutazioni del virus, a danno di tutti. Il problema – anche sotto il profilo della tenuta costituzionale del provvedimento – non è tra vaccino e niente, ma tra rischio vaccino e rischio virus, tra libertà individuale e libertà degli altri, tra il diritto di scegliere e il diritto degli altri di non subire ulteriori restrizioni alla propria libertà di impresa e alla propria libertà personale, tra salute individuale e salute collettiva. In altri termini, occorre fare una valutazione comparativa tra il diritto di scelta del singolo e le inevitabili e potenziali limitazioni dei diritti costituzionali degli altri. Si tratta di aspetti che sono stati considerati sia dalla Corte Costituzionale francese e, recentemente, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, che hanno concluso per la legittimità del green pass. Tra l’altro queste considerazioni sono sempre in linea con le indicazioni della Corte Europea dei diritti dell’uomo che già nell’aprile di quest’anno aveva giustificato le vaccinazioni obbligatorie, pur suggerendo una certa gradualità prima di arrivare all’obbligo. E la gradualità è rappresentata proprio dal green pass, che propone il tampone come alternativa alla vaccinazione.
Quanto all’obbligo di green pass sul posto di lavoro è appena il caso di ricordare che le norme in materia di sicurezza applicate in tutti i Paesi Europei già consentono la possibilità di sospendere il lavoratore quando vi sono ragioni di tutela della salute sul luogo di lavoro. Quando vi è un rischio di contagio all’interno dei locali aziendali è obbligo del datore di lavoro ridurre i rischi derivanti da pericolose commistioni tra non vaccinati e vaccinati (come, ad es. nel caso degli ospedali). Prima dell’estate il Tribunale di Modena aveva giudicato corretta la sospensione degli infermieri no vax prima dell’entrata in vigore della legge. Ed è sempre su queste basi che Siemens ha imposto l’obbligo di green pass ai propri dipendenti prima dell’entrata in vigore del nuovo decreto legge. Nello stesso senso in Svizzera, Francia e Grecia – sia pur senza una legge– i datori di lavoro hanno titolo per chiedere il green pass. Ancora più penetrante poi è la prassi negli Stati Uniti. Solo a titolo esemplificativo, datori di lavoro quali Google, Facebook, Goldman Sachs, nonché le Università di Harvard, Columbia e Princeton richiedono le vaccinazioni, senza alcuna alternativa per l’opzione tampone. Nel Regno Unito non esiste alcuna disposizione per imporre la vaccinazione ma, nella prassi, i datori di lavoro chiedono ai dipendenti di fare i tamponi una o due volte alla settimana. Che è esattamente quanto applicato in Italia, dato che il green pass può essere rilasciato non solo al vaccinato, ma anche a chi fa il tampone o chi ha contratto la malattia almeno 9 mesi fa.
Milano, 23 settembre 2021