I no mask possono essere licenziati

Di Giorgio Solbiati


Con la pandemia che ci farà ancora compagnia almeno per qualche mese (è di qualche giorno fa l’affermazione di Anthony Fauci secondo cui i paesi occidentali si lasceranno l’emergenza alle spalle non prima della primavera 2022) e con cui però dovremo convivere cercando di non interrompere l’avviata ripresa economica ed industriale del Paese, cominciano ad arrivare nei tribunali europei e italiani le prime vertenze relative alla prescrizione di cautele anti-covid sul posto di lavoro e alle conseguenze che derivano dal mancato rispetto delle medesime.

Così, è di qualche settimana fa una delle prime decisioni in tema, pronunciata dal Tribunale di Colonia, in Germania, e relativa al caso di un lavoratore che rifiutava l’uso della mascherina, anche nell’interazione con il cliente, sulla base di una sorta di certificato medico (su carta nemmeno intestata) nel quale si dava conto dell’esistenza di (generici) motivi di salute che lo avrebbero autorizzato a non indossarla. Perseverando nel rifiuto, il lavoratore era quindi stato licenziato. Il giudice di Colonia ha però convalidato la sanzione espulsiva. Del resto, data per assodata la necessità (riconosciuta dagli organismi internazionali e dalle legislazioni dei vari paesi europei, Germania compresa) di indossare le mascherine nel momento in cui ci si trova al chiuso a contatto con altre persone, la mancanza di prova di una condizione medica che impedisca l’uso della mascherina, accompagnata da un contegno assolutamente ritroso e testardo anche di fronte al legittimo ordine del proprio datore di lavoro e alle richieste del cliente, hanno pienamente giustificato l’interruzione del vincolo fiduciario che si pone alla base di qualunque rapporto di lavoro.

Sulla medesima lunghezza d’onda paiono oggi orientarsi anche i giudici italiani. A Venezia il Tribunale (sentenza 387 del 4 giugno 2021) ha ritenuto più che legittimi i 3 giorni di sospensione irrogati ad un lavoratore che, in spregio di esplicita disposizione aziendale, rifiutava l’uso della mascherina adducendo come scusante “il caldo eccessivo” e il fatto che l’imposizione della mascherina costituirebbe violazione di non ben individuati “diritti costituzionali” (un adagio che sembra andare alquanto di moda in questo periodo in certi ambienti ideologici e politici). Il Tribunale ha però riconosciuto il dovere del lavoratore di conformarsi all’ordine del datore di lavoro, esecutivo di precise norme di legge, ed ha inoltre ricollegato la condotta illegittima del lavoratore alla violazione del dovere di ottemperare agli obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

Nello stesso senso ha provveduto il Tribunale di Trento, con sentenza dello scorso 8 luglio. Una lavoratrice tridentina, insegnante di scuola d’infanzia (quindi a contatto con utenti, i bambini, nemmeno protetti dal vaccino), aveva rifiutato l’uso della mascherina anche di fronte agli inviti delle colleghe, del preposto e perfino all’ordine di servizio del dirigente, l’inottemperanza specifica al quale aveva condotto al licenziamento per giusta causa. Licenziamento ritenuto però legittimo dal Tribunale di Trento, che ha valutato come censurabile la condotta della lavoratrice anche su un piano di solidarietà sociale, avendo la lavoratrice anteposto proprie intime (ascientifiche) convinzioni all’interesse generale alla tutela della salute (supportato non solo da specifici obblighi di legge, ma dalle più riconosciute cognizioni scientifiche). Inoltre, costituendo la mascherina, in tempo di pandemia, certamente un adeguato DPI, la decisione della corte tridentina trova ulteriore addentellato normativo e giurisprudenziale nella più volte ribadita legittimità del licenziamento del lavoratore che rifiuti l’uso dei prescritti DPI a tutela della propria sicurezza.

I tre casi riportati ci aiutano quindi a trarre, perciò, una regola molto chiara: al lavoratore (salve documentate ragioni mediche) non è consentito discostarsi dalle prescrizioni di legge e dagli ordini di servizio del proprio datore di lavoro relativi all’obbligo di uso di DPI anti-covid. E non gli è consentito, a maggior ragione, nemmeno quando il rifiuto discende solo da sue intime convinzioni, il perseverare nelle quali legittima tanto il richiamo disciplinare, quanto poi il licenziamento per giusta causa. È la morte del pensiero libero, come sostengono alcuni? Assolutamente no; il pensiero libero può essere espresso in autonomia, ma al di fuori del proprio posto di lavoro, mentre nell’eseguire il proprio lavoro, soprattutto se si è a contatto con utenti e clienti, è doveroso ottemperare a tutte le regole poste a tutela della salute e sicurezza; la propria e, soprattutto, quella degli altri.


Milano, 06 settembre 2021