Il conflitto “sanabile” tra innovazione tecnologica e privacy nell'organizzazione del lavoro.
di Luca Menichino 


Sebbene l’entrata in vigore del GDPR (Regolamento Europeo 679/2016), abbia sensibilizzato le imprese sul trattamento dei dati personali nella propria organizzazione del lavoro, il tema non è nuovo.

La questione affonda le prime radici negli anni 70’, quando venne introdotto nello Statuto dei Lavoratori l’art. 4, che vietava il controllo a distanza dei lavoratori, anche a mezzo di videosorveglianza (che è puro trattamento di dati personali). Già allora il principio di fondo era che il potere di controllo e vigilanza del datore di lavoro, necessario per l’organizzazione del lavoro, incontrava dei limiti, dati dalla necessità di garantire la dignità e l’autonomia del lavoratore. Controllo ed efficienza organizzativa sì, ma non sino ad eliminare gli spazi di libertà e la dignità dell’uomo.

Il principio fondante di quella vecchia norma, poi riformulata nel 2015, costituisce uno dei pilastri della Convenzione dei diritti dell’uomo così come interpretata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Sent. Cedu 16 gennaio 2016) e del nuovo GDPR, in cui l’urgenza della tutela delle condizioni dell’uomo e della sua dignità è ancora più avvertita, a causa del potere sempre più penetrante e pervasivo della tecnologia che, in mondo sempre più aperto e globalizzato, consente di acquisire e trasferire una molteplicità di informazioni personali, come mai in precedenza. Oggi più che mai, la crescita tecnologica, che porta con sé la condivisione e la raccolta a livello globale di un numero significativo di dati della persona, trova il proprio argine nella necessità di tutelare la dignità e la autonomia dell’uomo.

Recentemente, nel 2015, la Raccomandazione del Comitato dei Ministri degli Stati Membri della UE sul trattamento dei dati personali ha precisato che la tecnologia non può avere come “scopo diretto e primario” il controllo della prestazione del lavoratore (come nel caso di un sistema di controllo della produttività e dell’impegno di un lavoratore) anche se, dall’altro lato, si è affermato che l’introduzione di nuovi sistemi e tecnologie per ragioni organizzative, di salute e sicurezza e tutela del patrimonio aziendale è senz’altro ammessa, purché vengano assicurate alcune garanzie dirette a salvaguardare i diritti fondamentali dell’individuo.

La contrapposizione o, meglio, il bilanciamento tra innovazione tecnologica nell’organizzazione del lavoro e i diritti dell’uomo non conduce inevitabilmente in un vicolo cieco.

Certamente se la tecnologia consente un controllo massivo e indiscriminato del lavoratore e l’utilizzo di tali dati da parte del datore di lavoro, ben si comprende che gli spazi di autonomia personale sarebbero talmente compressi sino a scomparire. Non saremmo più liberi, anche perché la tecnologia consente non solo un controllo nel presente, ma attraverso la conservazione dei dati consente di creare un “album retrospettivo” sulla vita del lavoratore. Un simile utilizzo è senz’altro vietato non solo dalle disposizioni del GDPR, ma anche dalla normativa italiana sul controllo a distanza.

Così, l’introduzione di un chip sotto pelle che consente un monitoraggio attuale e storico delle attività del lavoratore per migliorare la produzione sarebbe uno strumento troppo invasivo. Nello stesso senso sarebbe illecito l’utilizzo di un casco che registri le onde cerebrali del lavoratore per comprenderne i livelli di performance e migliorare così l’efficienza dell’impresa, adibendo i lavoratori ad altri compiti o ponendoli in ferie (il caso è stato recentemente riportato dalla stampa). I diritti fondamentali e l’utilizzo di dati personalissimi cederebbero inevitabilmente il passo alla macchina, nel momento in cui tali tecnologie consentono di correlare il dato acquisito alla persona. L’uomo sarebbe schedato e controllato anche nei suoi aspetti più intimi.

Ma se l’innovazione tecnologica viene utilizzata per acquisire informazioni sui processi organizzativi, “minimizzando” o “anonimizzando” l’informazione relativa alla prestazione del lavoratore e precludendone l’utilizzo per fini sanzionatori, ecco che l’ordinamento europeo e italiano non si oppongono all’utilizzo di nuove tecnologie volte a rendere più efficiente l’impresa.

In questo si risolve il bilanciamento degli interessi tra tecnologia e umanità.

Per evitare facili abusi e aggiramenti della legge, però, il datore di lavoro deve garantire che gli strumenti informatici assicurino un tracciamento che dimostri, anche a posteriori, le modalità di acquisizione dei dati ed è tenuto a dare una adeguata informativa ai lavoratori sulle condizioni di raccolta e utilizzo dei dati. In mancanza di simili garanzie anti elusive, il trattamento dei dati diviene illecito, con conseguente applicazione del regime sanzionatorio previsto non solo dal GDPR e inutilizzabilità delle informazioni raccolte anche a fini giudiziari.

Di recente, ha destato grande scalpore l’idea legata all’utilizzo da parte di Amazon di un braccialetto elettronico per consentire una più facile individuazione delle merci e ottimizzare i tempi, attraverso un sistema che guida il soggetto verso la merce.

Da più parti si è affermato che l’uomo sarebbe stato ostaggio della macchina e del suo controllore, ma queste censure non hanno affrontato il tema nella giusta prospettiva.

Se la tecnologia consente un controllo della prestazione, le critiche sono più che legittime, ma se il braccialetto consente di reperire più rapidamente la merce, ma al contempo il sistema informativo anonimizza e non conserva il dato riferito agli spostamenti del lavoratore, non vi sarebbe alcun controllo perché il lavoratore non sarebbe identificabile. La tecnologia diventerebbe così uno strumento innovativo per migliorare, non solo i processi dell’impresa, ma anche la qualità della prestazione nell’interesse dell’uomo. Allo stesso modo, la raccolta di dati anonimi riferiti ad un numero rilevante di dipendenti per fini statistici di produzione, consente da un lato di comprendere i lati deboli dei processi produttivi, senza raccogliere e conservare le informazioni personali e senza alcun pregiudizio per le libertà fondamentali dell’individuo. Va nella stessa direzione anche l’adozione di strumenti, già utilizzati negli Stati Uniti, che suggeriscono comportamenti più efficienti ai dipendenti, al fine di evitare dispersioni. Se il suggerimento di un “coach elettronico” viene gestito solo dal lavoratore, il relativo dato viene anonimizzato e non entra nella disponibilità del datore di lavoro se non quale dato aggregato, si tratta di uno strumento compatibile con le disposizioni vigenti. Del resto, anche in questo caso, non vi può essere controllo se il dato non consente l’identificazione, neppure indiretta, del lavoratore.

In definitiva l’innovazione tecnologica non è né buona né cattiva. Vi è ampio spazio per l’innovazione organizzativa, purché – questo lo impone la normativa - vi sia una policy informativa chiara che regoli l’utilizzo dello strumento e a condizione che le procedure aziendali e il software utilizzato garantiscano il lavoratore contro facili abusi. La libertà e la centralità dell’uomo, prima di tutto.

 
Milano, 30 luglio 2018