Il contratto a termine al tempo dei populisti
di Filippo Menichino
A leggere il primo decreto del governo, (ma ancora decreti?) torna in mente un celebre passo del Manzoni che descriveva la carestia che si era verificata a Milano per le continue guerre e la situazione climatica. Il popolo affamato aveva preso d’assalto i forni e tumultuava nelle piazze. L’autorità di allora, il Gran Cancelliere Ferrer (quello che diceva al proprio cocchiere “adelante Pedro cum judicio“) pensò che per ristabilire l’ordine e dare al popolo il pane, non c’era altro di meglio che emanare un ordine ai fornai di dare tutto il pane che il popolo voleva. Naturalmente il provvedimento non conseguì nessun effetto; se il pane e il grano non c’erano non si poteva con un decreto crearli.
Orbene, il nuovo ministro del lavoro sembra che pensi come Ferrer: il lavoro stabile ed a tempo indeterminato esiste per tutti, sono soltanto le cattivissime leggi del precedente governo che hanno precarizzato il lavoro, sono le leggi Treu e Biagi che hanno consentito ai datori di lavoro di usufruire ingiustamente senza una reale necessità, del tempo determinato a danno dei lavoratori. Dunque, si riduca il termine dai 36 mesi a 24, si introducano clausole che rendano complicata e rischiosa la proroga da 12 a 24 mesi e si vieti persino ai sindacati di pattuire accordi che superino i 36 mesi, come in precedenza previsto da CCNL. Il popolo non vuole lavoro precario, ebbene con un decreto farò in modo che non ci sia più lavoro precario! E quelli che in precedenza, comunque anche se precari, potevano lavorare un anno, due anni in più? Della sorte di costoro non si dice nulla; nel decreto non c’è nulla che sia rivolto ad incentivare il contratto di lavoro stabile. Questo è il segnale che il Gran Cancelliere invia ai suoi fedeli: “lotta al precariato, lotta al Jobs Act”.
Le clausole stabilite nel decreto per rendere legittima la prima e unica proroga del contratto costituiscono la quintessenza del formalismo giuridico italico, suggerita da giuristi di estrazione marxista (hanno rilasciato un’intervista!). Da una parte si consente astrattamente la possibilità di prorogare, dall’altra la si condiziona a delle situazioni di difficile accadimento e che comunque consentono una forte discrezionalità interpretativa del giudice. Invero, le esigenze del termine non debbono riguardare “l’ordinaria attività del datore di lavoro” (soltanto, ad esempio un’azienda chimica che costruisce la casa del custode sarà legittimata ad assumere dei muratori a termine). Tutti gli altri non potranno assumere per ordinaria attività, se vi saranno incrementi temporanei dell’attività ordinaria essi debbono essere “significativi e non programmabili”. Ad esempio, il pasticcere che fa il panettone per Natale o la colomba per Pasqua, anche se l’attività in quel periodo aumenterà notevolmente, non potrà far ricorso al termine poiché l’incremento è “programmabile” e peggio per lui se non si è dato da fare ad agosto.
Insomma chi rischierà nella stipulazione di un contratto prorogato? Se si sbaglia, la sanzione è la trasformazione del contratto a tempo indeterminato. D’altra parte la visione sul mercato del lavoro dei partiti attualmente al governo è sempre stata apocalittica; un mondo completamente precarizzato alla Blade Runner, per intenderci; nel mentre, la notizia della crescita dell’occupazione stabile di circa ottocentomila addetti è stata sempre contrastata, contrapponendo l’aumento del numero dei contratti a termine. Ovvio, quindi, che il decreto vada nel senso di quanto predicato.
Senonché la visione dell’attuale governo è contraria a quanto succede nei paesi più industrializzati. Nei paesi OCSE il contratto a tempo determinato è una normale vicenda del mercato e soddisfa la naturale flessibilità di esso. A nessuno piace (tranne, forse al 10%) avere un rapporto “precarizzato” (tanto per seguire il lessico comune), nemmeno al datore di lavoro che così non potrebbe contare sulla forza lavoro che si forma e cresce con stabilità all’interno della propria azienda. Purtroppo la globalizzazione e l’innovazione tecnologica hanno reso instabile il flusso delle commesse e la loro prevedibilità. A cui si deve aggiungere che la natura stessa di molti lavori è temporanea per definizione: servizi di alloggio e ristorazione, agricoltura e pesca, sanità ed assistenza, alcune attività manifatturiere e delle costruzioni. Il fenomeno è diffuso in tutto il mondo industrializzato, e non è vero che il contratto a termine sia un anomalia tutta italiana. Esso in Italia rappresentano solo il 15% dell’intera forza lavoro, più o meno come in Francia al 15,5%, in Olanda al 18%, in Spagna addirittura al 26%, ed in Germania al 13% (ma l’economia della Germania è molto più solida rispetto all’Italia). In Italia la maggior parte dei contratti ha una durata inferiore all’anno, quelli che lo superano sono il 20%. Quindi non è vero che i nostri giovani siano destinati a lavorare a termine per tutta la vita. Chi non riesce a trovare nel tempo contratti stabili è perché ha una scarsa professionalità e, quindi, si trova a dover contendere con troppi, ovvero ancora una professionalità che al mercato non interessa così tanto (si pensi ai tanti laureati in scienze della comunicazioni, in lettere, lavori segretariali) ovvero ancora possiedono professionalità da lavori temporanei o stagionali. Se non vogliamo che i nostri giovani trascorrano le loro vite in rapporti precarizzanti è nella formazione dei lavoratori che il governo deve attivarsi in massimo grado, nello sviluppo delle nuove tecnologie per aiutare la produttività delle aziende che perlopiù essendo piccole e con scarsi capitali, hanno una redditività tra le più basse d’Europa; nel creare un piano strategico nella crescita con incentivi (e disincentivi) là dove serve.
Insomma un governo che voglia veramente combattere la precarietà deve agire sull’economia per fare in modo che si creino più posti di lavoro, possibilmente stabili, non con un decreto cancellare o rendere più difficoltoso i contratti a termine senza prima averne studiato le conseguenze economiche. È molto probabile, infatti, che i posti che si perderanno nel lavoro a termine (perché il datore non vorrà rischiare una proroga con le causali) non saranno recuperati nel contratto a tempo indeterminato. Certamente il Governo dirà che il lavoro precario risulterà molto diminuito, canterà vittoria, ma i cittadini non saranno contenti di passare da un sistema di precariato a quello di disoccupazione; e capiranno che il Jobs Act non è stato per nulla “licenziato”. L’Art 18 rimane, sono solo state aumentate le penali per un licenziamento ingiustificato (36 mensilità, ma con anzianità di oltre 12 anni!). In pratica nel decreto c’è molta propaganda, ma un indirizzo pericoloso qualora si debba ascoltare il “Popolo” senza i necessari filtri dei partiti.
Milano, 4 luglio 2018