Il Garante della privacy è contro la consegna al datore di lavoro del green pass cartaceo, ma non convince

Di Luca Menichino


Il Garante della privacy ritiene che sia illegittima la nuova norma approvata dal Parlamento che consente al lavoratore, a sua discrezione, di consegnare il green pass cartaceo per non subire costanti e giornalieri controlli da parte del datore di lavoro.

Il primo argomento sostenuto dal Garante contro le nuove disposizioni è che, se non viene fatto un controllo giornaliero, il datore di lavoro potrebbe non sapere che, nel frattempo, il green pass è stato revocato per positività al Covid. Tutto ciò, secondo il Garante, renderebbe il trattamento dei dati non proporzionato rispetto alle finalità di contrasto epidemiologico.

Sul punto mi pare che il Garante pecchi di miopia, perché non tiene conto che, nell’ambito del rapporto di lavoro, le regole di correttezza e buona fede e la fiducia riposta sul comportamento del dipendente impongono che, una volta consegnato il documento, ci sia un preciso obbligo del lavoratore di comunicare variazioni, a pena anche del licenziamento. Cioè a dire che l’esistenza di chiari obblighi giuridici – anche di natura penale - in capo al lavoratore dopo la consegna del green pass costituisce garanzia sufficiente per assicurare un efficace contrasto epidemiologico, senza dover sovraccaricare il datore di controlli, per lo più inutili.

Il secondo argomento del Garante è che il Considerando 48 del Regolamento Comunitario sul green pass (953/2021) non consentirebbe la conservazione del certificato. In verità, il principio di non conservazione è strettamente correlato a una finalità e cioè all’esigenza di prevenire abusi e discriminazioni e “rischi per la libertà” dei singoli (Considerando 6-14-20-36-38). Detto in altri termini il vero e unico rischio sottostante agli aspetti di privacy e alla conservazione dei dati riguarda eventuali discriminazioni tra vaccinati e non vaccinati, discriminazione che non si può realizzare se la consegna del green pass è rimessa esclusivamente e a macchia di leopardo alla scelta indipendente del singolo. Diverso sarebbe se il datore di lavoro avesse il potere di richiedere il certificato e conservarlo e i lavoratori fossero obbligati, ma questo - come già detto - non è il nostro caso.

Rimane solo l’esigenza di non far conoscere al controllore il tipo di vaccino somministrato a ciascuno di noi. Ebbene si tratterebbe di una cautela irragionevole e sbilanciata, perché le nostre libertà e la nostra riservatezza non sarebbero messe a repentaglio dal fatto che abbiamo dichiarato di aver ricevuto uno tra i tre-quattro tipi di vaccini conosciuti da tutti e disponibili nell’ambito di una altrettanto nota campagna vaccinale di massa (il nominativo e la data di nascita risultante dal certificato è già nota al datore di lavoro). Insomma, Shakespeare direbbe: “Much ado about nothing” (Tanto rumore per nulla)!


Milano, 19 novembre 2021