IL MICROCHIP NELLA TUTA DI LAVORO
DI FILIPPO MENICHINO 


Da qualche giorno, nello stabilimento Arce lor Mittal (ex Ilva) sono in distribuzione le nuove tute di lavoro per gli operai; esse hanno, però, una particolarità: tra le cuciture è custodito un microchip.
Secondo quanto riferito al sindacato dalla direzione aziendale “il dispositivo consentirà esclusivamente la tracciabilità ed il ciclo di vita del sistema di protezione individuale".
Tuttavia per il sindacato di base, il microchip “potrebbe" (così testualmente) costituire un mezzo di controllo dell’attività dei lavoratori che, come tale, necessiterebbe di un accordo sindacale ai sensi dell’articolo 4 St. Lav.
I giornali a diffusione nazionale che hanno riferito la notizia si sono limitati alle dichiarazioni delle parti, ed alla notizia di facile presa della proclamazione dello sciopero di protesta. Quale effetto lesivo per i lavoratori possa procurare il dispositivo e quali informazioni esso possa fornire non è dato sapere. Un fatto però è certo: l’introduzione di nuove tecnologie spesso allerta il sindacato e fa intravedere pericoli in alcuni casi davvero inesistenti, soprattutto in organizzazioni con scarsa cultura tecnologica ed aziendale, avvezze perlopiù allo scontro che ad una consapevole collaborazione. Il braccialetto elettronico di Amazon è un precedente di riferimento.

Se, come afferma l’azienda, i microchip incorporati dovessero servire a migliorare l’organizzazione aziendale e a tutelare la salute del lavoratore, in sé non ci sarebbe nulla di male, anzi! Tuttavia, se il dispositivo dovesse memorizzare dati sensibili e personali del lavoratore potrebbe porsi un problema di privacy; ma se il datore di lavoro utilizzasse i dati per scopi determinati e compatibili, conservati per un periodo strettamente necessario e resi anonimi, così come dispone la legge e il regolamento comunitario 2016 /679, nessun problema ci sarebbe.
Inoltre, bisognerebbe prima verificare se il dispositivo aziendale consenta un accertamento diretto o indiretto delle attività lavorative: mentre l’utilizzo diretto deve sempre corrispondere ad esigenze organizzative e produttive e necessita sempre di un accordo sindacale o dell’autorizzazione dell’ispettorato del lavoro, diverso è l’utilizzo indiretto. In questo caso, sarà necessario accertare se l’indumento di lavoro costituisca il mezzo per poter adempiere alla prestazione. Insomma, dalle poche notizie riportate sui giornali sembrerebbe che senza quella apposita tuta la prestazione non sarebbe possibile, anche se qualche dubbio può sorgere se l’indumento possa esser considerato un vero e proprio mezzo di lavoro. Comunque se fosse così, se il microchip consentisse il controllo e se la tuta con inserito il dispositivo fosse un mezzo di lavoro, il datore potrebbe imporne l’utilizzo anche al sindacato recalcitrante, previo beninteso una dettagliata informazione sulle modalità d’uso (art. 4, 2co., St. Lav.).
Se invece un controllo indiretto non ci fosse, il datore non avrebbe altri oneri che rispettare, se del caso, le norme sulla privacy. Norme queste particolarmente rigorose e che prevedono anche sanzioni pecuniarie molto elevate. In questo caso, però, l’art. 4 St. Lav. - subito invocato dal Sindacato - non avrebbe voce in capitolo.

 
Milano, 9 settembre 2019