Il salario minimo e la tutela dei poveri autonomi

Di Luca Menichno.


Quando, qualche giorno fa, ho letto che è in fase di approvazione la direttiva sul salario minimo ho subito pensato che, tra non molto, anche in Italia scompariranno casi di sfruttamento sul lavoro. Non mi riferisco solo ai braccianti ma anche a quella massa indistinta di lavori autonomi che non hanno alcuna protezione contro il mercato; ho pensato ai piccoli professionisti e ai praticanti degli ordini professionali e, tra questi, ai praticanti avvocati che in molte parti del nostro bel paese ricevono, se va bene, 200/300 euro al mese. Anche qui a Milano, circostanza di cui non si parla e di cui bisognerebbe vergognarsi.

La convergenza delle forze politiche europee sul salario minimo, dunque, è uno straordinario passo in avanti, una grande conquista di civiltà democratica e liberale ed è un atto che conferma l'unità europea in una materia che interessa milioni e milioni di lavoratori. E' un provvedimento che vuole dare un segnale soprattutto oggi in cui i salari stanno perdendo potere di acquisto a fronte dell'inflazione e che conferma la rilevanza dell'Europa come player politico di rilievo; un'Europa oggi più che mai irrinunciabile.

Il primo aspetto non banale e di grande rilievo è che la proposta di direttiva riguarda tutti i lavoratori senza esclusione e senza alcuna discriminazione tra lavoratori subordinati (protetti) e autonomi (sprovvisti di tutele e protezioni).

La direttiva stabilisce dei criteri cui devono attenersi gli Stati membri al fine di evitare che la mediazione politica possa alterare o annacquare le finalità di protezione previste dai suoi principi ispiratori. I criteri per la determinazione del salario minimo sono:

1) il potere di acquisto dei salari, l'incidenza delle imposte e dei contributi;

2) il livello generale dei salari lordi;

3) il tasso di crescita dei salari lordi;

4) l'andamento della produttività (la redditività media delle imprese).

Nei paesi in cui la contrattazione collettiva ha particolare rilievo - circostanza valida in particolar modo per l'Italia - la fissazione del salario minimo sarà rimesso alla contrattazione collettiva; ma se la contrattazione collettiva non copre il 70% del mercato, il governo sarà tenuto ad adottare un piano per incentivare la contrattazione collettiva in ogni settore merceologico.

Le best practice europee impongono che i Paesi membri inviino annualmente i dati sulla copertura e l'adeguatezza dei salari così come anche il piano volto a incoraggiare la contrattazione collettiva. Si tratta di un aspetto di rilievo perché consente un controllo a livello centrale, l'adozione di correttivi e solleciti in caso di non conformità ed evita le pastoie e l'inerzia, cui troppo spesso siamo stati abituati.

Anche dopo l'approvazione della direttiva, a mio parere, il tema più spinoso si porrà in relazione alla fissazione di un salario minimo, soprattutto, nei contratti collettivi per i lavoratori autonomi.

In questo ambito del tutto parcellizzato, infatti, manca un presidio sindacale e soggetti rappresentativi in grado di negoziare un accordo. Sarà necessario una forte azione del Governo per assicurare questa copertura e non sarà facile arrivarci. Se ciò non si verificherà, come è ragionevole ipotizzare, anche prima dei correttivi imposti dalla UE, penso che la giurisprudenza potrà venire in soccorso, invocando - anche e soprattutto in relazione ai lavoratori autonomi - i principi sanciti dalla direttiva e i criteri adottati dalla contrattazione collettiva per la fissazione di un salario minimo, al fine di garantire ai non protetti un compenso che sia davvero adeguato.


Milano, 08 giugno 2022