Il vaccino: cosa può fare il datore di lavoro e, in generale, l’imprenditore
Di Luca Menichino
Ormai da qualche settimana la discussione degli avvocati giuslavoristi si è polarizzata sul tema della licenziabilità o meno del dipendente che si rifiuti di assumere il vaccino.
Ci sono diverse prese di posizione e molti affermano che la questione sia discutibile e da valutare con attenzione, anche in funzione di una valutazione dei rischi di contagio che potrebbero variare a seconda del contesto.
La questione si snoda partendo dal famigerato art. 2087 cod. civ. che impone al datore di lavoro di assicurare le misure di sicurezza garantite dalla tecnica per proteggere i propri dipendenti. Se il datore non vigilia e non assolve questi doveri rischia, in caso di infortunio, o meglio, di contagio, di rispondere civilmente e penalmente.
Ad oggi il vaccino risulta lo strumento più efficace per contrastare la pandemia con un’efficacia pari al 95%, così come è stato confermato da tutte le autorità (tra le altre, EMA in Europa e AIFA in Italia) che ne hanno autorizzato l’utilizzo. L’uso delle mascherine e delle altre misure di sicurezza (lavaggio delle mani e distanziamento) senz’altro costituiscono misure contenitive, ma di certo – in presenza di un vaccino – non possono ragionevolmente considerarsi sufficienti. La valutazione spetta al medico competente, che, in sede di valutazione dei rischi, è tenuto a individuare i rischi di contagio (a cui si deve attenere il datore di lavoro); ma dubito fortemente, come qualcuno ha sostenuto, che un medico possa affermare che le misure adottate sino ad oggi - peraltro sacrificando altri diritti fondamentali di rango costituzionale quali l’iniziativa economica e le libertà personali - siano sufficienti a garantire l’incolumità dei lavoratori. Il vaccino, insieme agli altri strumenti già in uso, garantisce di più ed è pure funzionale alla “decompressione” degli altri diritti di rango costituzionale.
Va detto poi che il tema della vaccinazione non deve essere visto solo nell’ottica della salute dei lavoratori ma anche della salute pubblica. Inoltre, il vaccino consente di liberare gradualmente gli imprenditori dalle limitazioni imposte dalle misure restrittive, assicurando loro una maggiore “pienezza” di iniziativa imprenditoriale, una prerogativa questa che è protetta dalla Costituzione. La vaccinazione ha poi un ulteriore riflesso di rilevanza costituzionale sulle nostre libertà personali nella prospettiva di un ritorno alla normalità, dal momento che – come ben sappiamo - nel corso della pandemia abbiamo dovuto e dobbiamo subire le maggiori restrizioni personali dai tempi della seconda guerra mondiale.
In altri termini, non esiste solo il diritto di scelta del singolo lavoratore ma ci sono anche altri interessi protetti dalla Costituzione che devono essere adeguatamente tutelati in un’ottica di contemperamento reciproco. In presenza di un’autorizzazione del vaccino da parte delle autorità preposte, salvo prova contraria, il vaccino è a tutti gli effetti uno strumento sanitario idoneo a tutelare la persona e non valgono di certo i dubbi sulla sua futura efficacia da parte del singolo – peraltro espressi per lo più da soggetti non competenti - in presenza di un farmaco autorizzato dagli enti a ciò deputati. Se, nella disponibilità di un vaccino, si consente l’accesso in azienda a soggetti non vaccinati, soprattutto in certi contesti sanitari come le RSA, in caso di contagio si corre un forte rischio di violazione dell’art. 2087 c.c.. Non riesco ad ipotizzare nulla di diverso, dato che il documento di valutazione dei rischi evidenzierà un maggior rischio di contagio da parte dei non vaccinati. Se il lavoratore dissenziente può fare altre attività in ambito aziendale (ad es. lavorare da remoto) o essere adibito a compiti “a ridotto contatto” in modo da non nuocere, il lavoratore non potrà essere licenziato né sospeso. Se invece non esistono altre soluzioni compatibili, a me pare del tutto ragionevole che il datore di lavoro non debba essere costretto a correre rischi, anche penali, e sia libero di procedere, ove possibile, alla sospensione o alla collocazione in cassa integrazione e, in assenza di alternative, al licenziamento.
Alcuni hanno lasciato intendere che il licenziamento si porrebbe in contrasto con l’art. 32 della Costituzione, secondo cui il trattamento sanitario può essere imposto solo per legge: consentire il licenziamento in caso di mancata vaccinazione equivarrebbe ad imporre indirettamente il vaccino, senza una legge.
Secondo me il tema è mal posto.
In primo luogo, una simile lettura tende a far salva la scelta incondizionata del singolo di scegliere i trattamenti sanitari. Tutto vero sino a quando tale comportamento non si scontra con diritti di terzi. Si tratterebbe, in altri termini di una lettura miope e individualista, perché la libera determinazione del singolo produce effetti molto rilevanti anche sulla salute dei terzi e comprime in modo significativo direttamente o indirettamente altri diritti di rango costituzionale (salute, iniziativa economica e libertà personale).
Inoltre, il datore di lavoro – o meglio, il medico competente - non impone il vaccino e non si sostituisce al legislatore, ma si limita a prendere atto in un certo contesto che un soggetto non vaccinato può essere più pericoloso per gli altri. Premesso che il licenziamento non è sempre automatico, se c’è un giudizio di maggiore pericolosità, il datore di lavoro deve adottare dei rimedi. Così come in caso di pericolosità delle lavorazioni in uno stabilimento il datore di lavoro è obbligato a sospendere le attività, allo stesso modo è tenuto a ridurre i rischi di esposizione anche nel caso in cui la pericolosità non dipenda dalle cose o dalle attività ma dalle persone, quali potenziali veicoli di contagio. Il lavoratore resterà pur sempre libero di scegliere; certo, subirà delle limitazioni legate a quel lavoro, ma non sarà obbligato a vaccinarsi.
Quanto alla possibilità di assumere informazioni in merito alla vaccinazione, l’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori esclude che il datore di lavoro possa condurre investigazioni sanitarie sui lavoratori, anche in fase preassuntiva.
E’ tutto vero ma è pure vero che anche il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro (D.lgs. n. 81/2008) assegna al medico competente compiti di sorveglianza sanitaria, in forza dei quali non solo può sottoporre a visita il dipendente, ma può assumere tutte le informazioni inerenti. Come già chiarito dal garante della privacy, il diritto alla riservatezza sarà comunque garantito, perché il medico competente si limiterà a esprimere un giudizio di idoneità/inidoneità alla mansione. Ovviamente il giudizio di inidoneità non si riferisce solo ad un giudizio di pericolosità della mansione per la salute del dipendente ma si riferisce ad un giudizio di pericolosità/inidoneità anche per la salute degli altri. E così come il lavoratore può essere licenziato, in caso di inidoneità rispetto alla mansione per cui viene valutato, allo stesso modo il datore di lavoro sarà libero di non assumere.
Ma che succede se, per motivi sanitari, il dipendente non si può vaccinare, perché in gravidanza, allergico o immunodepresso? Premesso che le ipotesi di allergia sono rarissime e poco significative, in questi casi, anche in base ad una applicazione più estesa delle disposizioni Covid emanate nel corso del 2020, il dipendente potrà essere considerato in malattia, posto che, nei fatti, la situazione di rischio gli impedisce di svolgere l’attività lavorativa (salvo il caso in cui possa essere adibito ad altri compiti o lavorare da remoto). Tutto ciò è già previsto nei casi di quarantena e di malattie immunodepresse e oncologiche (art. 26 D. L. n. 18/2020, convertito in Legge n. 27/2020). Quanto alla gravidanza, è verosimile che in questo caso, essendo esposta ad un rischio, la lavoratrice possa anticipare il periodo di assenza.
Considerazioni non molto diverse possono essere fatte per gli imprenditori che erogano un servizio. E‘ possibile rifiutare l’ingresso in un negozio o in altri luoghi a contatto con il pubblico? E’ possibile negare l’accesso su un mezzo di trasporto?
In generale, il privato è libero di subordinare il servizio a determinate condizioni che, nelle fattispecie, non sarebbero discriminatorie perché applicate indistintamente a tutti e sulla base di un interesse degno di tutela: un’esigenza rilevante di salute pubblica. Alcuni esercizi, tra cui bar e ristoranti e i soggetti che esercitano un pubblico servizio, però, non possono rifiutare l’erogazione e sono obbligati a contrarre, salvo che non ricorra un legittimo motivo (Art. 187 R.d. 635/1940). A mio parere, anche in questo caso, è consentito negare l’accesso: il legittimo interesse non corrisponde solo ad un obbligo giuridico imposto dalla legge, ma può essere fatto valere quando vi sia un interesse meritevole di tutela. Nel caso, mi pare che ragioni di salute pubblica e l’esigenza di evitare di incorrere in eventuali responsabilità nei confronti dei terzi e dei propri dipendenti possano giustificare a pieno la limitazione degli accessi ai non vaccinati.
Certo è però che si tratta di una questione più teorica che pratica. Se si distingue tra cliente vaccinato e non (si pensi ai bar e ai ristoranti, ai trasporti, ad alcune compagnie aeree) si favoriscono i concorrenti più disponibili, per cui dubito che, nella pratica, i privati rifiuteranno l’ingresso ai non vaccinati. Ecco perché sarebbe necessaria una legge uguale per tutti (c.d. patente sanitaria) che avrebbe il pregio di regolare il tema delle vaccinazioni, evitare fenomeni di dumping ed eliminare qualsiasi fonte di incertezza interpretativa. Inoltre, in caso di rifiuto massivo di vaccinarsi – come accaduto in alcune RSA -, è persino evidente che il datore di lavoro non possa eliminare 1/3 della forza, pena la mancata erogazione del servizio. Anche per questa ragione sarà necessario un intervento del legislatore. Del resto, oggi più che mai anche l’imprenditore, già provato dalla pandemia, deve essere in grado di gestire al meglio l’attività, riducendo al massimo i fastidiosi oneri legati a eventuali contenziosi.
Milano, 13 gennaio 2021