Il vigile urbano e l’immobilismo della P.A.
di Luca Menichino
Recentemente, con sentenza 11.10.2017 n. 2596, il Tribunale di Milano ha affrontato il caso di un Agente di Polizia Locale piuttosto “creativo” il quale, da un lato, svolgeva attività a favore del Comune di Milano irrogando sanzioni amministrative per violazione al codice della strada e, dall’altro, per tramite di un’associazione privata, dispensava suggerimenti ai cittadini sulle migliori modalità per impugnare le multe, previo pagamento di una quota d’iscrizione all’associazione.
Nonostante l’Agente si sia difeso affermando che la libertà d’associazione è sancita a livello costituzionale (sic!), a causa di un più che evidente conflitto di interessi, il Comune di Milano ha irrogato la sanzione della sospensione dal servizio per 10 giorni, sanzione che è stata giustamente confermata dal Tribunale.
La notizia, che ha solo il pregio di mettere in evidenza un certo malcostume nel settore pubblico, in realtà impone alcune riflessioni sull’entità della sanzione irrogata, che si è tradotta soltanto in un provvedimento conservativo del posto di lavoro. Tutto ciò anche se non mancano precedenti della Corte di Cassazione che confermavano il licenziamento dell’impiegato pubblico in presenza di un conclamato conflitto di interessi (Cass. Civ., 04.05.2017, n. 10836).
Per esperienza, nel settore privato, qualsiasi imprenditore avrebbe mal tollerato di continuare a lavorare con chi dispensava suggerimenti contro l’interesse del datore di lavoro, ma nel settore pubblico i funzionari hanno preferito evitare sanzioni drastiche. Del resto, al limite il Comune avrebbe rischiato solo 10 giorni di retribuzione contro un pregiudizio economico ben superiore nel caso di licenziamento ritenuto illegittimo.
Il motivo di un certo qual immobilismo della Pubblica Amministrazione, costretta a lavorare con collaboratori infedeli senza alcun reale effetto deterrente nei confronti degli altri dipendenti che abusano del proprio ruolo, nasce dai vincoli legislativi ed amministrativi cui sono sottoposti i dirigenti, tenuti ad assumere la responsabilità di alcune decisioni. In altri termini, anche dopo l’approvazione della c.d. Legge Madia, i dirigenti pubblici sono stretti tra l’incudine ed il martello: da un lato, l’eccessivo rigore del CCNL Enti Locali, che sembra – almeno all’apparenza – giustificare il licenziamento solo in presenza fatti gravissimi o in seguito alla commissione di reati (accertati con sentenza passata in giudicato), dall’altro, le norme volte a responsabilizzare il dirigente, il quale risponde in proprio per danno erariale e cioè per le scelte negligenti che hanno conseguenze patrimoniali sull’Ente Pubblico.
Con la Legge Madia, peraltro, questa responsabilità è stata ancora più accentuata, con la previsione di sanzioni disciplinari e ricadute pesanti anche sulla erogazione della retribuzione di risultato e sulla progressione di carriera.
In definitiva, le disposizioni applicabili ai decisori della P.A. sono senz’altro ispirate alla nobile volontà di responsabilizzare il dirigente pubblico, ma finiscono troppo spesso, anche per via di un eccessivo rigore applicativo da parte della Corte dei Conti per ingessarne l’azione anche quando la situazione lo imporrebbe. Situazione questa ancora più acuita dal generale senso di insicurezza sulle decisioni dei Giudici, che spesso sono ispirate dalla logica della giustizia del caso concreto, con talune forzature, piuttosto che a quella di assicurare uniformità di indirizzo a favore della certezza del diritto.
Meglio, quindi, un cauto immobilismo rispetto ad azioni che invece porterebbero un sano vento di rinnovamento nella P.A. e di cui si sente un forte bisogno.
Milano, 30 ottobre 2017