La metafora dei fattorini di Foodora
di Filippo Menichino 


Il recente caso di Foodora (ed anche di Deliveroo) rappresenta una metafora perfetta dell’odierna società. Da una parte il popolo ama il progresso, l’innovazione, la tecnologia; dall’altra ne ha timore, vede una minaccia per i propri posti di lavoro; da una parte comprende che aprendosi ai mercati globali una parte di essi avrà più opportunità, crescerà maggiormente e potrà ridistribuire la ricchezza per diminuire le diseguaglianze; dall’altra teme la globalizzazione, la riduzione dell’identità, la competitività e chiede protezione e chiusura dei mercati e dei trattati internazionali perché una metà del Paese non ce la fa ed è uscita sconfitta dagli eventi planetari di questi ultimi dieci anni. C’è chi guarda al futuro nella convinzione che il Paese migliorerà e che si ridurranno le diseguaglianze, e chi invece per qualche voto in più si preoccupa soltanto del presente senza una visione.

Sta di fatto che ben pochi vogliono rinunciare ad acquistare una camicia a poco prezzo, al cellulare di ultima generazione progettato prodotto e venduto in mercati globali, neanche vogliono rinunciare alla pizza a casa propria, nel minor tempo e prezzo possibile. Ma va da sé che la riduzione dei costi e dei prezzi, oltre agli indubbi vantaggi, incide sui costi sociali. Ogni vantaggio ha il suo prezzo. Ovviamente il progresso, l’innovazione, l’organizzazione, il merito e la produttività non possono esser bloccati, (anche se qualcuno sta pensando di “contrattualizzare” la tecnologia) ma la politica dovrà preoccuparsi di dare ai cittadini (oltre la momentanea assistenza) i mezzi necessari per competere sui mercati molto competitivi. Soprattutto la politica dovrà dare molta istruzione e preoccuparsi di una P.A. decentemente organizzata. Chiudere le frontiere darà un sollievo al presente e la morte nel futuro. Fuor di metafora, le piattaforme digitali costituiscono un’ottima innovazione perché consente l’incontro tra qualsiasi domanda e qualsiasi offerta dislocate nel mondo; tuttavia il lavoratore che utilizza la piattaforma spesso è un contraente debolissimo, e deve subire i prezzi che il mercato dei consumatori stabilisce.

Finora il diritto del lavoro ha protetto i lavoratori subordinati poiché si riteneva che essi fossero il contraente più debole. I lavoratori autonomi erano considerati persone in grado di cavarsela da sé nel procelloso mare del mercato. Senonché in questi ultimi dieci anni ci si è accorti che il loro numero aumentava, ed adesso sono oltre cinque milioni, un quarto dell’intero mercato del lavoro. La crescita dipende certamente da fattori di trasformazione dell’economia che richiede crescentemente apporti di lavoro flessibili e molto specializzati; ma la circostanza che l’Italia abbia il più alto numero di autonomi in Europa fa ritenere che, in parte, la causa possa essere attribuita alle difficoltà di reperire lavori subordinati. Nasce quindi l’esigenza di un minimo di tutele che i settori meglio organizzati sono riusciti a raggiungere, come i professionisti iscritti agli albi, nonché tutti i lavoratori parasubordinati organizzati dal committente e che svolgono la loro attività in modo coordinato e continuativo (in situazione di “dipendenza economica”); e pur anche i lavoratori “occasionali” ma con rapporto continuativo che hanno diritto anch’essi ad un equo compenso. Gli unici che non hanno tutele di nessun tipo sono i lavoratori a partita IVA che prestano la loro attività in modo non continuativo e non coordinato dal committente. Non solo costoro non hanno tutele previdenziali ed assistenziali (perché la continuità del rapporto è un presupposto fondamentale), ma non possono neppure rivolgersi al giudice del lavoro qualora la loro fattura non venga pagata (art. 409 cpc), ma solo rivolgersi al giudice ordinario con tempi molto più lunghi, né hanno diritto ad una equa retribuzione poiché non esiste per il lavoratore autonomo norma costituzionale di protezione (art. 36 Cost.).

Nel mondo autonomo, coloro che lavorano per le piattaforme digitali sono quelli messi peggio poiché il committente tende sempre più a trasferire il rischio d’impresa sul lavoratore. Nella letteratura giuridica e sociologica per lo più anglosassone, il rapporto di chi lavora con i gestori (Uber, Deliveroo, Foodora ecc.) è stato spesso analizzato e commentato, ed anche i giudici hanno avuto modo di pronunciarsi. Sulla piattaforma digitale il lavoratore è un mero numero che stipula tanti micro contratti ed un algoritmo calcolerà la sua produttività, i lavoratori sono messi in competizione tra loro e vince chi spunta il prezzo più basso, oppure chi per primo riesce a portare a compimento la consegna; il cliente tuttavia potrà rifiutarla, a sua discrezione, ed il rider non avrà diritto né di protesta né di pagamento. L’algoritmo calcola inesorabilmente il più veloce nelle consegne, chi costa meno, chi riceve meno rifiuti. Insomma, trattasi di una sorta di “Blade Runner” all’epoca del “Nome della Rosa”. In Italia i lavoratori coinvolti sono, per ora, una decina di migliaia, ma in tutto il mondo, dall’India agli USA, essi sono milioni e si prevede, fra poco, supereranno le decine di milioni. Sarà pur mutato il contesto, sarà pure la società dei “gig economy”, della sharing economy, del lavoro “on demand” e del “crowdsourcing”, ma il lavoro, quando s’inforca una bicicletta nel traffico cittadino, rimane sempre lo stesso. Si comprende pertanto poiché da molte parti si chiede protezione anche per i paria del lavoro autonomo. E’ pur vero che questo tipo di lavori era destinato ad essere “gig” (lavoretti) proprio per la loro intrinseca precarietà, ma è anche vero che ormai da qualche tempo essi tendono a diventare lavori principali a fronte della scarsità di posti di lavoro stabili.

La legge francese ha già disciplinato il lavoro tramite piattaforma, in Europa vi è qualche esempio di cooperativa di lavoratori digitali con l’intenzione di sostituire l’imprenditore delle piattaforme, perfino nei paesi anglosassoni i giudici hanno deciso che i fattorini in bicicletta non sono dei piccoli imprenditori (come sosteneva la difesa dei gestori della piattaforma), ma “workers” con diritto ad avere un minimo di trattamento, e qui da noi sono depositati progetti di legge per disciplinare il fenomeno. Ovunque, ormai ci si è resi conto che non ha tanto senso insistere sulle classiche distinzioni di lavoro autonomo o subordinato con le relative discipline e tutele. Ormai nella società “liquida” di oggi la classificazione dei lavori tende ad essere sempre più sfuggente ed ogni lavoro avrà in sé un quid di tutti e due. E questa è la grande-una delle tante- rivoluzioni che l’odierna società ci sta portando.

Resta tuttavia il fatto che milioni di persone (non importa come classificati) avranno bisogno di protezione, di un “decent work”, e la nostra società dovrà pur trovare un modo. Con l’ovvia precauzione che i nuovi lavori nascono poiché sono “liquidi” e non regolamentati; un eccesso di regolamentazione a carico dell’utenza rischierebbe di farli sparire; ragion per cui, prima di muoversi ci si deve chiedere se sia meglio il fattorino di Foodora a tre euro a consegna (perché così vuole pagare il cliente della pizzeria), ovvero di rischiare di non avere niente. Probabilmente dovrà pensarci lo Stato, nei limiti del possibile, s’intende.

 
Milano, 8 maggio 2018