L’IDEOLOGIA E IL “DECRETO DIGNITÀ”
DI LUCA MENICHINO E ANDREA ORLANDINI 


Il mondo del lavoro un tempo era certamente più definito: tute blu e colletti bianchi lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, CCNL dei metalmeccanici e dei tessili, contratti a tempo indeterminato (la norma) e a tempo determinato (l’eccezione), Oggi tutto si confonde, tra le sponde sempre più indefinite delle definizioni dal lavoro, si creano nuove terre di mezzo, ancora molto da capire e approfondire. Tra i tanti temi oggi proviamo ad approfondire cosa accade nei confini tra tempo interminato e tempo determinato.
Molti politici pensano che l’aumento della precarizzazione dipenda dalle cattive leggi che consentono agli uomini profitti sempre maggiori. Si è consolidata l’idea che limitando, per legge, l’utilizzo dei contratti a tempo determinato, sarebbero, per contro, aumentati i contratti a tempo indeterminato. Insomma una sorta di mercato del lavoro a somma zero ove, secondo le leggi dei fluidi, quanti lavoratori escono da una parte altrettanti entrano dall’altra.
Ma la realtà è molto diversa poiché mentre l’offerta di lavoro è per lo più stabile, la domanda è condizionata dalle regole dell’economia. Un tempo, le produzioni erano per lo più stabili e un operaio entrava in una fabbrica a 20 anni con un contratto a tempo indeterminato per uscirne all’età della pensione. L’innovazione tecnologica e la globalizzazione hanno aumentato a dismisura i fattori d’incertezza, tant’è che oggi un imprenditore non sa precisamente valutare quali saranno, ad un anno, le quantità e qualità di produzione da svolgere o da ricevere o i servizi da erogare.
La tendenza, quindi, all’aumento dei contratti a tempo determinato è un fenomeno fisiologico in tutto il mondo e non solo in Italia e risponde quindi a logiche economiche ancor prima che normative: la flessibilità non è quindi un’invenzione per sfruttare le persone, ma la risposta a queste esigenze anche se questo non vuol dire un laissez faire di puro liberismo perché è evidente che limiti e garanzie vanno messi; il tema è che non possono essere più quelli del passato.
Ma a parte i fenomeni economici globali è un fatto che la natura stessa di molti lavori è temporanea per definizione: servizi di alloggio e ristorazione, agricoltura e pesca, sanità ed assistenza, alcune attività manifatturiere e delle costruzioni. E poi vi sono tante aziende che operano per commesse o che hanno fluttuazioni produttive, ragion per cui il termine al contratto di lavoro è del tutto fisiologico. D’altra parte le percentuali di ricorso al contratto a termine in Italia non sono diverse da ciò che si pratica in tutta Europa. Si va dal 15,5 % in Francia, al 18% in Olanda, addirittura il 26 % in Spagna, mentre in Germania siamo al 13 %, rispetto al 15 % dell’Italia. La maggior parte dei contratti a termine ha una durata inferiore all’anno, mentre quelli che la superano sono il 20%. Segno, questo, che l’utilizzo del termine tendenzialmente ha natura temporanea o di prova.
Chi non riesce a trovare nel tempo contratti stabili é perché ha una scarsa professionalità e, quindi, si trova a dover contendere con troppi, ovvero ancora una professionalità che al mercato non interessa così tanto (si pensi ai tanti laureati in scienze della comunicazioni, in lettere, lavori segretariali), ovvero ancora possiedono professionalità da lavori temporanei o stagionali. La formazione è la risposta e occorre a tal fine creare un piano strategico con incentivi.
Ma di tutte queste situazioni, il nostro legislatore non ha voluto tenerne conto. Si è intestardito a ritenere che l’aumento dei contratti a termine derivasse dalle cattive leggi dei governi precedenti che avevano lasciato mano libera alla precarizzazione e ha pensato che, attraverso un decreto, si sarebbe ristabilita la “dignità” del lavoratore.
Fu così che il termine massimo di durata dei contratti da 36 mesi è stato ridotto a 12; sostanzialmente a 12 mesi, poiché le condizioni per poter aggiungere un altro anno al contratto sono difficilmente realizzabili in azienda, e provarci significa correre il rischio di vedersi convertire il contratto.
Anche chi lavorava, ad esempio, due mesi ogni anno in azienda per soddisfare un’esigenza ripetuta, ma assai lontana dal termine dei 12 mesi, negli anni non avrebbe più potuto far ricorso al contratto flessibile, se non formalizzando l’impossibile “causa” del rinnovo. Inoltre, le stesse limitazioni di durata e condizioni stabilite per il contratto a tempo determinato sono state introdotte anche per il contratto di somministrazione, con ciò bloccando strumenti importanti di flessibilità.
Secondo recenti statistiche di Assolavoro, 60 mila lavoratori in somministrazione, avendo raggiunto il tetto massimo di 24 mesi, non potranno più proseguire a lavorare con questa tipologia contrattuale e saranno costretti ad altre soluzioni di mercato probabilmente meno interessanti di quanto offerto dalle agenzie per il lavoro. Se poi si aggiunge che, poco dopo, nel novembre del 2018 la Corte Costituzionale ha reso più oneroso il costo del licenziamento ingiustificato dichiarando l’illegittimità dell’indennizzo fisso in funzione dell’anzianità di servizio e ampliando i margini di discrezionalità dei Giudici, se ne può concludere che il ricorso al contratto a tempo indeterminato risulterà sempre meno appetibile. Anche la nuova flat tax per i lavoratori autonomi non agevola il ricorso a contratti permanenti, perché riducendo significativamente il costo del lavoro degli autonomi, agevola indirettamente una migrazione rispetto a forme contrattuali meno onerose per l’imprenditore.
Allo stato, non esistono ancora indicatori statistici consolidati per trarre una conclusione. Tuttavia, ad avviso di chi scrive, questa riforma penalizzerà soprattutto quelle fasce più deboli che, almeno nel dichiarato, vorrebbe tutelare. Al termine dei primi dodici mesi di contratto, nella sostanziale impossibilità di procedere con delle proroghe o rinnovi, sarà molto probabile che le aziende non confermeranno proprio quei lavoratori con professionalità più deboli e che sono facilmente e velocemente sostituibili con bassi costi formativi, da altri lavoratori. Mentre dipendenti con professionalità elevate e difficili da reperire verranno confermate, cosa che per altro già avviene nella grande maggioranza dei casi per non rischiare di perderli a favore della concorrenza.
Tutto ciò genera maggiore precarietà: minore è il tempo di permanenza in azienda, maggiori saranno i periodi di disoccupazione per la ricerca di un’occupazione alternativa in un lasso di tempo più breve.
Queste considerazioni fatte che valgono per i giovani sono altrettanto valide se pensiamo ad altre fasce potenzialmente deboli sul mercato del lavoro. E ancor più che alle tematiche dell’ageing, pensiamo proprio a quel nuovo fenomeno che si sta purtroppo sempre più avvertendo delle difficoltà dei lavoratori di “mezza età” a rientrare proficuamente nel mondo del lavoro laddove, per vicissitudini aziendali o personali, ne siano momentaneamente usciti. Si tratta di un fenomeno un tempo inesistente o quasi ma che oggi, con il ridursi delle opportunità lavorative, la rapida obsolescenza delle competenze in particolari digitali, la concorrenza dei giovani e la permanenza prolungata al lavoro dei lavoratori in età pensionabile, sta diffondendosi. Siamo in una età fortemente critica per le persone spesso caratterizzata dai più alti tassi di necessità di spesa (casa, studio dei figli, salute) con problemi economici e di status molto rilevanti. La possibilità di accedere con facilità a contratti a termine facilmente reiterabili, è oggi una importante opportunità per queste categorie che grazie a queste forme contrattuali possono usufruire di contratti regolari potendo con gradualità rientrare nel mondo lavorativo anche coprendo i loro eventuali gap di competenze.
Non solo. Nell’ambito di professionalità a basso valore aggiunto, anche il tema dell’età ha un rilievo, perché la tendenziale assenza di esigenze formative legate a processi di lavoro semplici reiterati per molti anni determina, per il lavoratore, anche una minore flessibilità e capacità di adattamento al mercato del lavoro. Ecco quindi che una stretta sulla durata dei contratti a termine può colpire in modo ancora più significativo i lavoratori dell’età di mezzo che non abbiano sviluppato, soprattutto in ragione della loro esperienza professionale e formativa, una naturale propensione al cambiamento.
In sintesi, la precarizzazione va combattuta, ma bisogna scegliere molto bene gli obiettivi, senza affidarsi solo all’ideologia. Il sistema ha bisogno di investimenti in tecnologia e innovazione, di una graduale riduzione del cuneo fiscale e contributivo per i contratti stabili, oltre a forti incentivi sulla buona formazione. Se vogliamo veramente attuare una politica organica di sviluppo e incremento della buona occupazione.

 
Milano, 11 luglio 2019