L’inevitabile segno dei tempi sulle norme che regolano i licenziamenti.
di Filippo Menichino
Con comunicato del 26 settembre ultimo scorso, l’Ufficio Stampa della Corte Costituzionale ha reso noto che la Consulta ha dichiarato illegittima la norma sul contratto di lavoro a tutele crescenti nella parte in cui determina in modo rigido l'indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato, poiché la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio (da 4 a 24 mesi ed ora, dopo il Decreto Dignità, da 6 a 36) è contrario ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dalla costituzione.
Le motivazioni si conosceranno fra qualche settimana, ma già ora il mondo imprenditoriale è in allarme, poiché è stato smantellato uno dei due cardini su cui si fondava la riforma della risoluzione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato: la mancata reintegrazione (se non per pochi casi) e la predeterminazione del danno risarcibile, proprio per consentire all’imprenditore il controllo dei costi.
La predeterminazione legale del risarcimento basato soltanto sul criterio dell’anzianità ha impedito finora al Giudice di graduare la sanzione: era la legge a stabilirne l’ammontare. Ora, a seguito di questa sentenza, il Giudice tornerà ad essere arbitro della misura del risarcimento, tra 6 e 36 mensilità.
Curiosa è questa sentenza: il Governo attuale, che tanto aveva protestato contro il Jobs Act e promesso ai suoi elettori di cambiarlo radicalmente, in occasione del Decreto Dignità non ne ha approfittato, limitandosi ad aumentare l’entità dell’indennizzo, ma senza consentire ai Giudici di valutare la gravità dell’inadempimento datoriale. La Corte, invece, – per ironia della sorte – sembra aver inciso molto più politicamente di quanto abbia voluto fare il Governo, che ora se ne prende i meriti.
Il Giudice di merito, quindi, applicherà immediatamente l’articolo depurato dai vizi incostituzionali ai 20 mila processi in corso e molti imprenditori verificheranno che gli accantonamenti in bilancio per esito di giudizio non saranno sufficienti. Il contenzioso sicuramente aumenterà, così come aumenterà il costo delle conciliazioni. Tutto sommato si ritornerà ai valori di un tempo: un vantaggio per gli avvocati; probabilmente non così per il sistema produttivo.
Queste sono le conseguenze che deriveranno dalla sentenza della Corte Costituzionale, ma in attesa di leggere la motivazione sorge la curiosità di sapere perché mai la Corte ha sentito la necessità di discostarsi dal diritto del lavoro di tutti i Paesi del mondo ove il risarcimento per il licenziamento illegittimo è sempre parametrato all’anzianità di servizio, in quanto unico modo certo per determinare la quantità di esso senza rimetterlo alla discrezionalità di un terzo. Forse la Corte dovrebbe riflettere che l’Italia non è l’unico Paese al mondo che si distingue per la tutela dei propri cittadini; e non può pensare che le leggi di tutti gli altri Paesi del mondo non abbiano “ragionevolezza” nel fissare il risarcimento sulla base dell’anzianità di servizio. La civile vicina Svizzera prevede sei mensilità di risarcimento massimo, l’Inghilterra otto, la Spagna ventiquattro, la Francia venti, la Germania diciotto, contro trentasei dell’Italia.
Da quanto si può intuire, ragionando in base al dispositivo, la Corte sembra ritenere che la ratio della misura dell’indennità contro il licenziamento illegittimo sia fondata sul grado di colpa del datore di lavoro, tanto più ingiustificata sarà la motivazione del licenziamento, tanto più alto sarà il risarcimento. Sennonché in tutto il mondo si pensa che l’indennità risarcitoria non abbia una funzione punitiva, non sia collegata alla colpa, ma abbia una funzione “assicurativa” contro i rischi del licenziamento, rischi che aumentano con il trascorrere del tempo. Quasi tutti gli economisti del lavoro di tutto il mondo sono d’accordo su questa teoria, ma evidentemente la nostra Corte è più avanti di tutti.
Milano, 1 ottobre 2018