L’ingiusta proposta sui limiti alla delocalizzazione delle imprese
Di Luca Menichino
Su proposta del Ministro Orlando e del viceministro dello Sviluppo Economico, Alessandra Todde, da circa un mese, circola una bozza di decreto contro le delocalizzazioni, che ha già sollevato diverse perplessità, non solo da Confindustria.
In sostanza, le società che occupano più di 250 dipendenti, intenzionate a chiudere l’attività in Italia “per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendesse probabile la crisi o l’insolvenza” sono tenute a dare comunicazione preventiva agli organi preposti e ai sindacati ed elaborare un piano contenente le misure per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali servizi di orientamento, assistenza alla ricollocazione, formazione e riqualificazione professionale, finalizzati alla rioccupazione o all’autoimpiego. Questa fase di consultazione dura circa sei mesi e, in caso di mancata presentazione del piano, è prevista la decadenza dalla possibilità di ricevere contributi pubblici a livello di gruppo. Il testo iniziale, tra l’altro, è stato giustamente ridimensionato perché, nella prima versione, prevedeva addirittura un obbligo di ricollocazione e costi pari al 2% del fatturato in caso di violazione della procedura.
La finalità è quella di impedire che le imprese possano comportarsi come alcune multinazionali percepite come predatorie e opportunistiche, le quali sacrificano i lavoratori locali per la ricerca del miglior profitto all’estero. Ma in realtà c’è un vizio di prospettiva e si rischia di fare di tutta l’erba un fascio. Queste nuove disposizioni, infatti, per più di una ragione, sono fortemente limitative della libertà di impresa e a rischio di costituzionalità.
È condivisibile chiedere la restituzione dei contributi pubblici agli imprenditori che cessano l’attività senza rispettare le condizioni di permanenza in Italia. In questo caso c’è la violazione di un patto con lo Stato e giustamente, già oggi, l’art. 5 del decreto dignità prevede che la società sia tenuta a restituire quanto indebitamente ricevuto.
Altrettanto auspicabile colpire gli imprenditori che hanno finalità predatorie e di sfruttamento, ossia che acquisiscono il know how, la titolarità di marchi e brevetti, per poi spostare la sede dell’impresa all’estero, liberandosi dei dipendenti. In questo caso è doveroso un intervento a protezione del know how e del lavoro.
Ma diverso il caso in cui l’imprenditore, pur non essendo sull’orlo del fallimento e pur non dovendo arrivare alla canna del gas con delle perdite, decida di proseguire la propria attività in un paese che gli garantisca migliori infrastrutture, migliori servizi e minori costi del lavoro. E se l’imprenditore arriva alla conclusione di chiudere e non cedere l’azienda con tutti i lavoratori è perché questa è l’unica soluzione praticabile, anche perché la chiusura – con il pagamento di tutte le competenze di fine rapporto, la dismissione dell’impianto e la cessazione dei contratti in essere è molto più onerosa della semplice cessione di azienda. Solo se non ha alternative chiude.
Questa scelta non può essere criminalizzata, imponendo sanzioni, anche perché lo Stato non sopporta il rischio, che è e rimane pur sempre in capo all’imprenditore e talvolta rappresenta la risposta per mantenere in Italia imprese competitive. È come voler limitare la fuga dei cervelli in altri paesi prevedendo delle sanzioni. Anche in questo lo Stato investe molto nella formazione del singolo, ma di certo non verrebbe in mente a nessuno di penalizzare chi vuole ricercare, anche per motivi egoistici, lavori meglio pagati e con possibilità di crescita professionale. La soluzione è incentivare il ritorno in Italia, come è stato fatto con la legge contro la fuga dei cervelli, non certo penalizzare chi ricerchi condizioni più convenienti.
Una norma così ampia -che riguarda tutte le ipotesi di cessazione senza perdite - non è giustificata e si pone in contrasto non solo con il principio di libertà di iniziativa economica tutelata dalla Costituzione, ma anche con il principio comunitario di libertà di stabilimento. Così come strutturata disincentiva la libertà di circolazione delle imprese, quanto meno all’interno della UE, con sanzioni e oneri aggiuntivi (tra gli altri, il processo dura sei mesi nel corso dei quali l’imprenditore è costretto a subire tutti i costi del lavoro). Del resto, una norma simile – ma applicata alle società con 1000 dipendenti – è stata adottata anche in Francia nel 2014 (la cd. Loi Florange), salvo poi essere stata dichiarata parzialmente incostituzionale per le ovvie limitazioni alla libertà di impresa.
Il fatto che per chiudere e delocalizzare sia necessario avere squilibri economici ed essere a rischio di insolvenza (ossia sull’orlo del fallimento) è una distorsione. Nella logica della libertà di impresa è sufficiente che vi sia una scelta imprenditoriale effettiva e non pretestuosa o predatoria (tra l’altro per insegnamento costante della Corte di Cassazione è pacifico che le scelte imprenditoriali non sono sindacabili), come del resto prevedono le norme europee a tutela dei licenziamenti e come ha chiarito anche la Suprema Corte (Cass. 25201/2016) che, lungi dal prevedere squilibri economici e un rischio di insolvenza per giustificare un licenziamento, hanno solo messo in evidenza che occorrono delle ragioni tecnico-produttive e organizzative. Tra l’altro una norma così generica (quando è probabile l’insolvenza?) favorisce interpretazioni ai limiti della ragionevolezza e conseguenze che, nel silenzio del legislatore, non possono essere trascurate, tra cui la nullità di tutti licenziamenti per mancata presentazione del piano o qualche vizio dello stesso. Insomma conseguenze aberranti – certamente neppure volute dal legislatore - che in sede di prima applicazione potrebbero facilmente verificarsi.
La logica deve essere diversa. Occorre agevolare l’attività di impresa e favorire gli investimenti internazionali, non bloccare gli investitori esteri con misure ingiustamente penalizzanti. E’ miope erigere barricate ex post per contrastare gli imprenditori che non intendono più fare impresa in Italia. Meglio ma molto meglio concentrare i propri sforzi per migliorare le condizioni per fare impresa e soprattutto investire seriamente nelle politiche attive, per favorire cioè la riqualificazione e il ricollocamento dei lavoratori in altre aziende. Questo è quello che serve veramente.
Altrimenti la risposta sarà solo quella di favorire altri paesi in cui le condizioni di rischio e di lavoro sono più favorevoli.
Milano, 03 settembre 2021