ILo strano caso dell’abuso di internet fuori orario di lavoro
di Filippo Menichino
Qualche giorno fa, nel commentare la sentenza del 15.06.2017 n. 14862 della Corte Suprema, i media titolavano: “abuso di internet, licenziato dipendente”. Di per sé la notizia non aveva carattere di novità, poiché più e più volte la giurisprudenza aveva preso posizione sull’abuso del mezzo aziendale in costanza di lavoro che, all’evidenza, sottrae tempo al dipendente per adempiere agli obblighi del contratto di lavoro. Ma nel leggere i fatti accertati nel processo di merito e poi in quello di legittimità ci si rende conto che la Suprema Corte ha giudicato su un caso completamente diverso: l’abuso di internet fuori dall’orario di lavoro.
I fatti sono questi. Un dipendente con lunga anzianità di servizio riceve dal proprio datore una internet key per uso lavorativo. In causa non è stato accertato quale fosse l’abbonamento della società con il gestore dei dati: se a consumo o flat, e se il lavoratore fosse a conoscenza del tipo di abbonamento. Comunque sia, al ricevimento della fattura da parte di Telecom, la società scopre che il proprio dipendente navigava in internet fuori dall’orario di lavoro, in giornate festive od alla sera dei giorni feriali. Dalla fattura risultava l’apparecchio assegnato all’utente, l’ora ed il giorno della connessione ed il tempo impiegato, nonché il consumo.
Il datore di lavoro licenzia per giusta causa il dipendente, sostenendo l’uso inappropriato dello strumento aziendale destinato soltanto ad esigenze lavorative. Il Tribunale di Bologna ritiene illegittimo il licenziamento poiché, si sostiene, il dipendente non era a conoscenza del tipo di abbonamento dati; la Corte d’Appello di Bologna ritiene, invece, che sussista quantomeno un giustificato motivo di licenziamento in quanto il comportamento del dipendente (indipendentemente dalla conoscenza dell’eventuale danno economico che la navigazione in internet provocava al datore), doveva considerarsi “in violazione delle elementari regole del vivere civile”; altro la Corte non dice.
La Corte di Cassazione con la sentenza che qui si commenta, conferma la sentenza della Corte territoriale, facendo proprie tutte le argomentazioni della Corte bolognese. Secondo Cassazione, non era necessario accertare se il prestatore fosse a conoscenza di provocare un danno alla società, poiché già sapeva che l’utilizzo dello strumento aziendale non era consentito e che “il contenuto dell’obbligo di diligenza si sustanzia non solo nell’esecuzione di quei comportamenti accessori che si rendono necessari in relazione all’interesse del datore di lavoro ad un’utile prestazione”.
Nel caso di specie l’abuso dello strumento aziendale (che a leggere la sentenza della Corte territoriale non ha provocato danno, o quantomeno è stato minimo) deve essere valutato anche in relazione dell’interesse aziendale al rispetto del patto (implicito) in costanza della consegna della chiavetta internet, in quanto per vietare qualcosa sarà pur sempre necessario che il comportamento vietato comporti la soddisfazione di una legittima esigenza datoriale. Ma la Corte non si dà cura di spiegare quale esigenza aziendale soddisfi la proibizione di utilizzare la chiavetta fuori orario di lavoro da parte di un lavoratore fuori azienda, e senza che, comunque, sia stato messo in mora. Ovvio che il dipendente non possa navigare in internet per ragioni personali durante il tempo da dedicare al lavoro, ma non è così ovvio quando costui naviga fuori servizio e non è accertato quale tipo di abbonamento fosse stato Q stipulato dalla società con il gestore dei dati, e se il dipendente ne fosse a conoscenza. Insomma, ben si comprende l’esigenza della Corte di terminare i processi in tempi rapidi, ma non sempre così si fa un buon servizio ai cittadini.
Milano, 6 luglio 2017