Origine e breve sintesi ragionata del Jobs Act
di Filippo Menichino
 

Nel mese di Settembre sono entrati in vigore gli ultimi decreti attuativi del Jobs Act, così concretizzando in tempi sorprendentemente brevi gli obiettivi che il legislatore si era prefisso soltanto poco più di un anno prima.

Sotto gli occhi di tutti e del legislatore in particolare, stava la realtà fatta da un mercato del lavoro costituito, da una parte, da lavoratori assunti a tempo indeterminato e protetti dall’art. 18 e, dall’altra, in grandissimo aumento, da un esercito di precari con contratto a progetto partita IVA o contratti a termine che alle prime difficoltà di mercato non venivano rinnovati. Sempre i più deboli o i più giovani venivano sacrificati; ed il merito non veniva considerato. Ma sotto gli occhi di tutti stava anche la realtà che l’art 18 nei momenti di crisi non dava alcuna protezione ai lavoratori.

Inoltre tutti potevano vedere l’andamento disastroso della CIGS (Cassa Integrazione Guadagni Straordinari) che costava ben 25 miliardi all’anno, praticamente a fondo perduto, e che serviva soltanto a mantenere in vita formalmente un rapporto di lavoro ormai morto. Le finalità originarie della CIGS, come spesso capita, erano state snaturate da pressioni politiche, dai sindacati e dalle stesse imprese che avevano il loro tornaconto ad utilizzare la Cassa prima del licenziamento. Le finalità originarie della Cassa Integrazione erano quelle di sopperire ad emergenze transitorie delle imprese, e di conservare la forza lavoro nei momenti di difficoltà, non certamente di dare mero sostegno al reddito dei lavoratori prima del loro inevitabile licenziamento. I 25 miliardi all’anno spesi per la CIGS (con contributi per la maggior parte dello Stato, delle aziende e dei lavoratori), sarebbero stati meglio impiegati se lo Stato si fosse trasformato in imprenditore attraverso i suoi Centri per l’impiego, al fine di far ottenere un posto ai lavoratori che l’avevano perduto.

Ed invece sotto gli occhi di tutti stava l’incapacità dello Stato di intermediare fra domanda e offerta di lavoro: soltanto l’1% della domanda aveva avuto riscontro dai Centri per l’impiego statali. Per il resto i lavoratori si dovevano arrangiare con le loro amicizie e le conoscenze personali. Mentre nei paesi più evoluti, invece, i servizi di politica attiva del lavoro svolgevano e svolgono un’attività molto più incisiva, ed anche gli investimenti pubblici in dette politiche sono almeno dieci volte superiori.

Questa dunque, era la situazione del mercato del lavoro e stupisce che una parte della società civile sia stata inerte per così tanti anni, e così riluttante alle modifiche.

A grandi linee ed in estrema sintesi si può dire che uno degli obiettivi della riforma è stato quello di agevolare la gestione dell’azienda flessibilizzando i licenziamenti e le mansioni con un costo per la stessa tutto sommato accettabile e, comunque, preventivabile. Il tabù della reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo è stato confermato soltanto in pochi casi: nei casi in cui il licenziamento abbia un motivo illecito sottostante, od in quello disciplinare, fondato su un motivo inesistente; nel contempo, il legislatore si è preoccupato di assistere il lavoratore sul mercato, garantendo una decorosa indennità di disoccupazione secondo standard europei, riconducendo l’istituto della Cassa Integrazione alla sua funzione originaria ed infine aiutando il lavoratore a cercarsi un altro posto di lavoro dandogli la possibilità di spendere all’uopo in voucher presso agenzie per il lavoro private, ma anche pubbliche, da questi liberamente scelte. Insomma, flessibilità nei licenziamenti, ma anche protezione del lavoratore sul mercato. L’ossessiva protezione del lavoratore sul posto di lavoro, ha danneggiato le aziende impedendogli di avere un organico confacente ai desideri dell’imprenditore, ma nel contempo, alla lunga, ha anche danneggiato il lavoratore lasciandolo senza protezione nei momenti di maggior bisogno. Alla fine, dopo decenni di diatribe per capire se fosse meglio proteggere il lavoratore sul posto o sul mercato, ha prevalso quest’ultima soluzione.

“A tutele crescenti” viene chiamato il sistema di indennizzi per il licenziamento illegittimo; da un minimo di quattro mensilità fino ad un massimo di ventiquattro mensilità collegate in via “crescente” all’anzianità di servizio del dipendente: due per ogni anno di lavoro. Trattasi di indennizzi superiori alla media europea, anche se è vero che il trattamento riguarda i “nuovi” assunti, mentre per i “vecchi” continuerà a rimanere in vigore lo Statuto dei lavoratori. Non c’erano le risorse, ma soprattutto la forza per il Governo di far applicare la riforma per tutti i dipendenti.

Nei media non se ne parla apertamente, ma uno degli obiettivi politicamente più rilevanti è stato quello di diminuire la discrezionalità del giudice. Costui, d’ora in poi, dovrà accertare se i fatti posti a motivazione del recesso sussistano, e se sussiste un nesso di causalità con il licenziamento, ma non potrà sindacare la gravità del comportamento del lavoratore ai fini della reintegrazione. Finora le interpretazioni imprevedibili delle sentenze hanno reso davvero faticoso il lavoro degli avvocati, e le aziende sono state messe in grande difficoltà nel decidere.

La riforma amplia la platea degli utenti al trattamento di disoccupazione: circa € 1000,00 al mese fino a 24 mesi (ma con riduzione del 3% al mese dal 4° mese in poi). Per chi ne guadagna € 2000 o più non è un granché, ma gli standard sono europei. La grande novità è stata di condizionare la percezione dell’indennità alla collaborazione del lavoratore nella ricerca del posto nel partecipare ai corsi di formazione.

Per quanto riguarda la Cassa Integrazione, si vieta il suo intervento in caso di cessazione definitiva dell’azienda e si fissano limiti tassativi alla sua utilizzazione(non più a tempo indeterminato come ad esempio il caso Alitalia); in sostanza si ritorna al criterio originario.

La CIG deve essere uno strumento di aiuto per le aziende in caso di momentanea difficoltà. Negli altri casi, nei casi di crisi strutturale, deve intervenire lo Stato con sostegno del reddito al lavoratore dopo la cessazione del rapporto, così come dovrà farsi parte attiva per consentire la ricerca dell’occupazione.

Nascondere la disoccupazione, come si è fatto finora, è un metodo costoso per lo Stato, e non serve al lavoratore che dopo la CIG si troverà senza un lavoro.

Grandissima novità è che finalmente lo Stato, dopo la modifica a suo tempo del monopolio pubblico, si apre ora alla collaborazione con agenzie del lavoro private che vengono pagate a risultato per la ricerca del posto.

Infine, la riforma ha proceduto al riordino dei contratti di lavoro. Ha stabilito – fra l’altroche le collaborazioni autonome saranno possibili anche senza un progetto, ma a condizione che il lavoratore non presti attività all’interno dell’azienda. Ha regolamentato le mansioni, un tempo immodificabili, consentendo al datore di lavoro una maggior flessibilità nella gestione del rapporto.

In buona sostanza, una riforma molto importante che rinnova quarant’anni di diritto del lavoro in Italia; in questo momento non è dato sapere se ci sarà un incremento dell’occupazione, ma quel che già si sa è che vi sono forti segnali di incremento dei contratti a tempo indeterminato con abbandono delle false partite IVA e degli improbabili contratti a progetto. E già questo risultato sul piano sociale è importante; probabilmente il merito avrà qualche chance in più di stare sul mercato.

Milano, 5 ottobre 2015