Perché il blocco dei licenziamenti non può essere prorogato
Di Luca Menichino
Il 26 giugno scorso i sindacati hanno indetto una manifestazione contro la scadenza del blocco dei licenziamenti al 30 giugno per le società del settore edile e manifatturiero (Industria).
La Commissione Europea ha già evidenziato che l’Italia è stata l’unico paese ad usare il blocco dei licenziamenti in tutta Europa e ha espresso parere negativo, perché il confronto con altri paesi dimostra che non è stato particolarmente efficace ed è considerato superfluo in considerazione del ricorso a strumenti per il mantenimento del posto di lavoro, come la cassa integrazione. Inoltre, secondo la Commissione, il rimedio discrimina i lavoratori a tempo determinato e non consente un turnover. Ed infatti la riduzione degli occupati a causa della pandemia dipende in larga misura da contratti a termine non rinnovati.
Ad oggi il settore industriale e l’edilizia interessati dalla fine del blocco sono in continua crescita e vi è stato anche un incremento significativo di contratti a termine nell’ultimo periodo, a riprova del tendenziale sviluppo del settore (Casadei, Sole24ore 9.6.21). Stando alle stime vi è anche un’aspettativa di crescita degli occupati nel settore per il prossimo futuro, in linea con le aspettative di crescita del PIL.
In questo contesto, i licenziamenti non devono spaventare se il ciclo economico è ripartito ed è in tendenziale crescita. Anche quando sfioravamo il picco degli occupati verso la fine del 2018, circa 500.000 persone all’anno venivano licenziate. Il dato fa impressione, ma in verità il mercato assorbiva questo deficit con altrettante assunzioni, per cui queste rimodulazioni dell’organico si risolvevano solo in un normale turnover, non dannoso per il sistema. Tra l’altro solo circa 200.000 licenziamenti erano riferiti alle imprese industriali e di servizi con più di 15 dipendenti, per cui l’esposizione del solo settore industria è molto più limitata, anche se, oggi, il settore della produzione tessile e abbigliamento è ancora in crisi.
Non solo. L’affiancamento della cassa integrazione alla possibilità di licenziamento costituisce uno straordinario strumento di stabilizzazione dell’organico: il licenziamento e le procedure di licenziamento collettivo hanno costi e tempi rilevanti (pagamento TFR e preavviso, oltre a un prevedibile indennizzo economico), per cui – fin quando ci sarà la possibilità di avvalersi della cassa integrazione – l’imprenditore tenderà ad utilizzare lo strumento meno oneroso. Certamente vi saranno licenziamenti legati all’inevitabile dinamismo organizzativo delle imprese, ma in una fase di crescita, dovrebbero essere ridotti e comunque le rimodulazioni organizzative sono, come fa intendere anche la Commissione Europea, anche una porta aperta per nuove assunzioni. E per i settori in crisi l’esistenza di una cassa gratuita dovrebbe essere di per sé sufficiente ad arginare il fenomeno., come ha evidenziato la Commissione Europea.
Infine, l’imposizione di un divieto oggi non appare più giustificato dalle circostanze come all’epoca del picco pandemico, motivo per cui, per gli imprenditori, si tratterebbe di una ingiustificata compressione di un diritto di libertà di iniziativa economica garantito dall’art. 41 Cost., oggi non più tollerabile.
Milano, 28 giugno 2021