Reintegrato ad ottant'anni
di Filippo Menichino 


La notizia riportata dai media qualche giorno fa, spiega meglio di tante parole perché il Paese non sia in grado di produrre ricchezza, ed il PIL sia pressappoco allo stesso livello di vent’anni fa.

Ed ecco la notizia. Nel 1993 un dipendente della Motorizzazione civile di Messina viene sospeso dal lavoro poiché oggetto di un procedimento penale. Dopo 16 anni (!) la Corte d’Appello di Messina assolve definitivamente il dipendente “perché il fatto non sussiste”, e la sentenza passa in giudicato. Il dipendente chiede di essere reintegrato anche se ormai ha superato i limiti di età, ma la Motorizzazione resiste in giudizio. Trascorrono altri 9 anni e la Sezione Lavoro della Corte d’Appello condanna la Motorizzazione a reintegrare il dipendente, anche se costui ormai ha superato gli ottant’anni. La legge, infatti, stabilisce: “il diritto di ottenere il prolungamento del rapporto d’impiego anche oltre i limiti d’età previsti dalla legge, per un periodo pari a quello della durata complessiva della sospensione ingiustamente subita, con il medesimo trattamento giuridico ed economico a cui avrebbe avuto diritto in assenza della sospensione” (art. 3, co. 57 legge 350/2003).

Dalla notizia giornalistica sembrerebbe, quindi, che il dipendente abbia diritto ad ottenere (a titolo di risarcimento danni) venticinque anni di retribuzioni trascorse e non godute per il fatto dell’ingiusta sospensione, ed altrettanti anni di future retribuzioni (questa volta a titolo contrattuale), sempre che il dipendente riesca a superare i cent’anni in servizio!! Poi certamente la nostra giustizia cercherà di rimediare all’assurdità delle leggi concedendo al dipendente uno scarso risarcimento in quanto, verosimilmente, costui non sarà stato in grado di fornire la prova di essersi attivato per cercare un altro posto di lavoro, e così limitare il danno; mentre per il futuro, in attesa che la natura faccia il suo corso, si cercherà un’onorevole transazione. Tutto si aggiusta in Italia? Forse, ma il vaso è ormai ridotto ad un colabrodo.

La prima riflessione non concerne tanto la reintegrazione di un signore che ha compiuto ottant’anni dopo quindici anni dalla teorica pensione (questo è ciò che si ripromette la legge), quanto la considerazione che il legislatore ha della P.A., intesa soltanto come contenitore di posti di lavoro, e non come un’organizzazione efficiente che si avvale dei dipendenti per erogare servizi di buona qualità. Dalla lettura delle norme si evince una prospettiva assistenzialistica in cui prevale l’aspetto del dipendente che deve essere (giustamente) ristorato del danno subito, indipendentemente dall’inutilità che una reintegrazione può portare all’efficienza dell’organizzazione, dopo tanti anni di assenza dal servizio. Certamente il dipendente deve essere risarcito, ma non a scapito dell’organizzazione, poiché altrimenti i servizi ne risentirebbero, e con loro anche i cittadini. Ma uno Stato assistenziale non pensa a questi effetti.

La seconda riflessione riguarda il comportamento della dirigenza. È noto agli economisti che un buon livello di responsabilità del pubblico dipendente è utile per accrescere la produttività e l’efficienza della Pubblica Amministrazione; quindi lo Stato dovrebbe avere personale non solo tecnicamente preparato, ma anche idoneo a gestire uffici, a decidere ed assumersi le relative responsabilità. Purtroppo tutti sanno che non è così, ed il caso esaminato lo conferma. I dirigenti della Motorizzazione Civile avevano la possibilità di gestire il procedimento disciplinare a carico di un dipendente accusato di fatti di rilevanza penale, poiché il procedimento disciplinare è del tutto autonomo dal processo penale. Ma ciò richiede capacità e responsabilità di indagare, capire e decidere. Qualità che i nostri dirigenti, invece, come la gran parte dei dirigenti pubblici italiani, in generale non hanno poiché il sistema pubblico non ha tra le sue caratteristiche quello di premiare o punire a seconda del risultato. Ma valutare il risultato richiede professionalità, indipendenza di giudizio ed autonomia nella scelta. Di conseguenza, se l’unico criterio di valutazione è la prestazione lavorativa in sé, indipendentemente dal merito, si può ben comprendere perché (con eufemismo) i servizi resi ai cittadini non siano considerati di livello scandinavo. Dopo sedici anni dalla sospensione dal servizio i Giudici stabiliscono che il cittadino è innocente, non ha commesso il fatto. Ma debbono trascorrere altri nove anni prima che la P.A. faccia mente locale che il rapporto di lavoro è ancora in vita e che sussiste un obbligo di riprendere in servizio il dipendente. Nel frattempo sono maturati venticinque anni di retribuzione!! Qui non si tratta solo di tempi della giustizia, ma del disinteresse di una burocrazia che ha avuto paura di decidere e non ha avuto la benché minima capacità ed autonomia per comprendere come stavano veramente i fatti e come gestire i rischi.

La Corte dei Conti dovrebbe stabilire se il disinteresse e l’apatia della dirigenza hanno fatto spendere indebitamente soldi pubblici, senza limitarsi al rispetto formale delle regole del rapporto di lavoro.

La terza riflessione è se sia giusto che un cittadino venga privato del lavoro, della retribuzione e della pensione adeguata, senza alcun giudizio. Si può ben comprendere perché il cittadino ad ottant’anni suonati abbia desiderio di rivincita ed abbia richiesto al datore di lavoro di proseguire nel rapporto di lavoro.

 
Milano, 10 aprile 2018