Telecamere occulte e dignità dei lavoratori. A proposito di una recente sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo.

Di Filippo Menichino 


Quasi tutti i giornali hanno dato notizia di una sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, con titoli di grande effetto: consentito controllare i dipendenti a mezzo di telecamere nascoste. Sui social si è acceso un intenso dibattito, non sempre informato. La sentenza della Corte europea riguardava il caso di 14 dipendenti di un supermercato spagnolo scoperti a rubare merce, e per conseguenza licenziati. La prova dell’illecito era stata fornita con un costante controllo per dieci giorni a mezzo di un sistema di telecamere, anche occulte, piazzate sulle casse e sull’attività dei lavoratori. (Sent. 17/10/2019, n. 1874). I licenziati del supermercato si rivolsero dapprima ai giudici nazionali e poi a quelli europei sostenendo la violazione delle leggi della privacy ed, in particolare, dell’articolo 8 della Convenzione europea che tutela la riservatezza della vita privata e familiare. I giudici spagnoli e poi la Corte europea respinsero le istanze dei lavoratori, sostenendo che il diritto di costoro alla riservatezza e dignità fosse stato sostanzialmente tutelato poiché il datore di lavoro aveva rispettato i principi di proporzionalità, non eccedenza, finalità, necessità, eccezionalità e trasparenza. Insomma, le classiche regole che informano la legislazione europea dei singoli Stati in materia di privacy. Anche il nostro Garante con una dichiarazione resa proprio il giorno di pubblicazione della sentenza della Corte europea ha approvato la decisione, sottolineando che questo tipo di controllo doveva considerarsi lecito in quanto, da un lato, non sussistevano altri mezzi alternativi per la tutela della proprietà privata e, dall’altro, il comportamento datoriale era in regola con le leggi della privacy.

Alla notizia della sentenza della Corte europea, alcuni addetti ai lavori hanno alzato il sopracciglio e dichiarato che non c’era nulla di nuovo poiché anche da noi esistono i controlli difensivi ed il datore di lavoro può ben controllare a distanza l’illecito commesso dai dipendenti. Ma in un caso come quello deciso dalla Corte europea qualche dubbio sorge, e fa ritenere che forse i nostri giudici avrebbero deciso diversamente.

In Europa generalmente, ed in Spagna in particolare, la videosorveglianza generica sul lavoratore al fine di scoprire a distanza se costui adempie alla propria prestazione è vietata. Tuttavia, in caso di sospetti o di pericolo immanente sul patrimonio aziendale, le leggi consentono un controllo sull’attività del lavoratore. Ovviamente il datore di lavoro, nella sua scelta, sarà tenuto al rispetto delle leggi locali ed europee a tutela della privacy del lavoratore. Ma la decisione del datore di lavoro non incontra nessun ostacolo preventivo, ed il giudizio sul suo operato può verificarsi solo ex post.
In Italia, invece, una norma inserita nello Statuto dei Lavoratori (art. 4, Legge 20 maggio 1970, n. 300) regola il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori; la norma è stata poi novellata nel 2015, ma la materia dei controlli a mezzo telecamere od altri sistemi di sorveglianza a distanza é sempre rimasta immutata da cinquant’anni.
Orbene, l’articolo 4 della predetta legge stabilisce che “il patrimonio aziendale” può essere liberamente tutelato anche attraverso sistemi audiovisivi, ma se sussiste la possibilità “indiretta” (al di là delle intenzioni del datore) che il lavoratore corra il rischio di essere controllato, il datore di lavoro non potrà installare le telecamere se non dopo l’autorizzazione del Sindacato. Insomma, il controllo diretto del lavoratore è assolutamente vietato (a differenza di ciò che si pratica in Europa) ed il controllo indiretto (preterintenzionale) del lavoratore praticamente non dovrebbe sussistere quasi mai poiché il Sindacato lo impedirebbe.
In forza di questa norma le aziende italiane subiscono da cinquant’anni un trattamento più restrittivo rispetto alle aziende europee. Solo “gli strumenti di lavoro” come pc, smartphone, tablet e GPS, attraverso i quali si possa anche controllare l’attività dei lavoratori, è stata liberalizzata nel senso che non è necessario richiedere preventivamente il consenso del Sindacato. Ma per tutti gli altri sistemi di controllo a distanza (tra cui anche i sistemi informatici di controllo della posta o dell’organizzazione), che non siano “strumenti di lavoro”, valgono le norme di cinquant’anni fa.

Il dato testuale della norma italiana è chiaro. L’attività dei lavoratori non si può mai controllare direttamente; se incidentalmente avverrà il controllo, si dovrà chiedere l’autorizzazione sindacale. Se una telecamera, autorizzata dal sindacato, dovesse accidentalmente scoprire che un dipendente passa il suo tempo lavorativo a fare parole incrociate, detto comportamento non potrebbe essere fatto valere dal datore di lavoro poiché la legge vieta il controllo dell’attività del lavoratore (e quindi del suo adempimento o meno alle prestazioni contrattuali) e l’accordo sindacale concerne solo le forme di tutela della proprietà aziendale; null’altro.
Ma se un lavoratore si appropria di un bene aziendale, commette un furto, una lesione personale, partecipa ad una rissa o commette un grave illecito civile (non un inadempimento contrattuale), che succederà? e se, per questione di tempo o di opportunità, il datore di lavoro non riuscisse ad ottenere il consenso al controllo da parte del sindacato, gli illeciti rimarrebbero impuniti?

Cinquant’anni fa, come si può ben comprendere, tra gli addetti ai lavori si accese una vera e propria rissa. I puri e duri – la corrente massimalistica della sinistra – sostenevano l’impossibilità della rilevazione dell’illecito a distanza, trattandosi pur sempre di “attività del lavoratore” (adempiente o inadempiente, non importa); mentre la corrente liberale si rendeva conto dell’assurdità cui avrebbe portato un’interpretazione rigida della legge. Come spesso succede, i nostri giudici furono chiamati a dirimere una questione che avrebbe dovuto risolvere, a suo tempo, il legislatore. E con la capacità tutta italica di mettere una pezza alle emergenze si creò la categoria giurisprudenziale dei cosiddetti “controlli difensivi”.
Disse la Cassazione: a fronte di un illecito verificatosi in azienda, il datore di lavoro ha il potere di intervenire poiché l’illecito non è attività del lavoratore e non costituisce l’oggetto del contratto di lavoro. È altra cosa. Quindi l’attività può essere controllata anche senza accordo sindacale. Solo l’attività del lavoratore è incontrollabile, non l’illecito del quale, però, la Cassazione non dà una definizione (penale, civile?). Un escamotage brillante anche se discutibile, ma che comunque nell’immediatezza riesci a dare un po’ di equità alla giustizia del caso singolo e concreto.

Tutto semplice, sembra.
Senonché i nostri giudici avevano un macigno che sbarrava la strada di una corretta interpretazione, macigno che si chiamava e si chiama articolo 4 St. Lav., il quale – unico in Europa – stabilisce che l’attività del lavoratore non si può mai controllare.
La legge, ovviamente, non offre regole applicative. Quanto tempo sia possibile sorvegliare legittimamente un lavoratore onde pervenire alla scoperta dell’illecito? Per la legge della privacy, si sa: il controllo non deve essere invasivo, deve essere proporzionale, finalizzato ad uno scopo, etc. Per l’articolo 4 St. Lav., invece, non è possibile controllare l’attività del lavoratore, tanto o poco che sia, è una norma rigida e, quindi, per necessaria conseguenza interpretativa, non si può controllare l’attività, anche se – in ipotesi – siano state rispettate le norme sulla privacy. Un’interpretazione surreale, perché non si comprende come sia possibile controllare l’illecito senza prima controllare l’attività.
Va però detto che nella pratica, per sopperire alle rigidità della norma, ci si arrangia come si può e sui controlli anteriori all’illecito si chiude un occhio o due, a seconda della gravità dell’illecito.

Ecco perché nello scorrere quarant’anni di giurisprudenza sul controllo a distanza si vede che la Corte di Cassazione non ha mai affermato, in un caso o nell’altro, che sia stata controllata l’attività del lavoratore, sia pure all’unico scopo di pervenire all’illecito. Vi sono due casi trattati dalla Cassazione che sono simili a quelli decisi dalla Corte europea. In un caso, una cassiera non ha registrato i pagamenti appropriandosi delle somme pagate dai clienti; la telecamera piazzata sulla sua postazione scopre illecito. Per i giudici il controllo era legittimo, anche se – pare di comprendere – le telecamere siano state in funzione per un non brevissimo tempo e abbiano controllato l’attività della lavoratrice. La Cassazione non accerta le modalità di controllo e conferma il licenziamento (Cass. n. 25674/2014).
Nell’altro caso, a seguito di un forte sospetto, la telecamera è stata piazzata “costantemente” da parte di un’agenzia investigativa su addetti alle vendite di una nave traghetto tanto da far ritenere –dice la sentenza – che ci fosse intenzione di controllare l’attività e non di accertare l’illecito. Tuttavia, anche in questo caso, la Cassazione non indaga il periodo di sorveglianza e conferma l’illegittimità il licenziamento (Cass. n. 13019/2017). Insomma, la Cassazione è sempre elusiva quando si tratta di illecito, anche se ogni tanto afferma che il controllo sull’illecito non deve ledere la dignità umana e deve rispettare la privacy: affermazioni del tutto generiche se non si dice quale sia l’oggetto del controllo. La Cassazione afferma anche che l’intenzione del datore di lavoro è del tutto irrilevante; ciò che conta è l’oggettivo controllo dell’attività del lavoratore (Cass n. 18302/2016).
Non a caso, nella maggior parte delle questioni trattate dalla giurisprudenza, i controlli riguardano l’accertamento dell’illecito ex post, dopo il verificarsi del fatto addebitato; e nei casi di accertamento ex ante sembra che l’illecito sia stato scoperto immediatamente, senza ricerche anteriori. Maliziosamente verrebbe da dire che ciò è avvenuto poiché gli avvocati hanno avuto cura di produrre nel processo solo quel certo documento che prova l’illecito, nascondendo gli antecedenti. Infine, negli altri casi nei quali è stata dichiarata l’illegittimità del controllo, si trattava di decisioni ovvie per controlli sistematici, per lo più informatici e inseriti stabilmente nell’organizzazione aziendale senza l’accordo sindacale. Sull’attività lavorativa antecedente l’illecito, mai nessun commento.
Questa modalità operativa, opaca e farraginosa, indubbiamente non facilita gli operatori di giustizia, lasciandoli perennemente in dubbio. Una modalità “ipocrita” è stato detto, e con ragione. Si fa, si controlla l’attività, ma non si dice.
Tuttavia bisogna avere un po’ di indulgenza nei confronti della Cassazione. Esiste una legge chiara sul piano formale ove sopravvive l’ideologia del potere sindacale che tutto previene e può, nonché la diffusa retorica che anche un accidentale controllo possa ledere in modo irreparabile la dignità e la vita del lavoratore; affermazione che il nostro Garante, con la riaffermazione del principio di proporzionalità, ogni volta nega.

Ritorniamo, allora, al quesito iniziale. Cosa direbbero i nostri giudici nell’esaminare un caso come quello deciso dalla Corte europea, un caso dove era chiaro che le telecamere avevano controllato la postazione di lavoro per 10 giorni? Alla stregua dei precedenti non è irragionevole ritenere che un controllo così palese inevitabilmente sarebbe stato considerato un controllo dell’attività, e quindi illegittimo. D’altra parte se non si vuole abbandonare l’interpretazione letterale della norma – come sembra volere la Cassazione – per una interpretazione più evolutiva e rispondente al contesto sociale odierno, sarà ben difficile non vedere che l’art. 4 St. Lav. si riferisce implicitamente ai controlli diretti ed espressamente ai controlli involontari che richiedono sempre l’accordo sindacale. Il dato testuale, dunque, non solo non consente di sostenere che il fine non giustifica i mezzi, ma che neppure il fine rileva in alcun modo nel controllo del lavoratore. Quel che rileva è soltanto l’oggettività.
A meno che il clamore mediatico, le dichiarazione del Garante e la gravità oggettiva del fatto non costringano la Cassazione a sostenere che non è controllo dell’attività quel controllo antecedente all’accertamento dell’illecito.
Sarebbe un risultato clamoroso, ma ormai siamo abituati a constatare che la Cassazione spesse volte fa la giustizia del caso singolo, piegando i fatti ad una logica non sempre giuridica.

Forse si dovrebbe ripensare al pragmatismo europeo e consentire al datore di lavoro di operare per la tutela del patrimonio aziendale avendo come regola solo il rispetto delle norme sulla privacy, poiché il potere sindacale (art. 4 St. Lav.) appare al giorno d’oggi un doppione di quello delegato al Garante.


 
Milano, 31 dicembre 2019