Un cambio di mentalità per le politiche attive
di Luca Menichino e Filippo Menichino


Poco tempo fa, la ben nota trasmissione d’inchiesta “Report” ci ha mostrato un aspetto di questo nostro Paese che fa comprendere perché siamo all’ultimo posto in Europa come “capitale sociale” (le risorse individuali nel contesto di una comunità e la loro capacità di creare ricchezza od altre utilità). Ci ha raccontato la trasmissione che almeno ventimila persone, alcuni anche da oltre vent’anni, lavorano nelle Regioni e nelle Province del Sud come “lavoratori socialmente utili”; costoro non sono dipendenti, non percepiscono uno stipendio, ma un sussidio senza contribuzione di € 400,00 al mese, pagati dal Ministero del Lavoro, e svolgono la stessa identica attività di tutti gli altri dipendenti pubblici. Il giornalista si chiedeva come fosse possibile tutto ciò; e costoro rispondevano con un mesto sorriso di rassegnazione.

I “lavori socialmente utili” sono una forma di politica attiva del lavoro (non passiva come la CIGS, che ci costa ben 20 miliardi all’anno!) che consente a chi è disoccupato di essere inserito momentaneamente in un’organizzazione lavorativa, e magari imparare un lavoro. Senonché la trasmissione si è dimenticata di dire che il tempo di inserimento nella Pubblica Amministrazione è un anno, trascorso il quale il lavoratore si dovrà cercare un’altra occupazione e non sono possibili proroghe, se non in casi eccezionali. Tuttavia, tutti i lavoratori intervistati hanno dichiarato di non pensare di lasciare il “posto” e di stare lì ad € 400,00 al mese in attesa della inevitabile “stabilizzazione” (assunzione in pianta organica) da parte della P.A..

“Report” si è focalizzata soltanto sull’evidenza, sul lavoro sostanzialmente non pagato e sulla speranza dei lavoratori di essere un giorno, chissà quando, assunti. Questo era l’oggetto dell’inchiesta e sembrava uno scoop giornalistico. Senonché una trasmissione d’inchiesta avrebbe dovuto vedere anche ciò che si trovava sotto gli occhi: l’ingiustizia che si ripercuote sui giovani e magari più preparati, a seguito del ricorso sistematico alle assunzioni in violazione delle regole costituzionali del concorso pubblico, la non qualificazione del personale che stabilmente lavora nelle amministrazioni, il lavoro nero necessariamente sotteso al sussidio, l’incapacità delle P.A. nello stimare efficacemente i fabbisogni delle risorse, la rete di complicità ed amicizie nello scavalcare magari il più meritevole nel posto provvisorio, la mancanza di managerialità e responsabilità da parte dei dirigenti, nonché il ricorso elusivo e strumenti legali per sopperire al blocco del turnover. Insomma i soliti miserevoli aspetti che tengono il nostro Paese, ormai da lungo tempo, lontano dagli investimenti internazionali.

Tuttavia “Report” non parla di questi aspetti: perché sa che metà Paese non gli darebbe retta e preferisce solo tutelare i diritti, ingessare i rapporti giuridici, ridistribuire le ricchezze e conservare l’esistente. Come trovare il lavoro probabilmente a metà del Paese non interessa, lo vuole e basta, tant’è che nei talk non si parla affatto di queste cose. Le politiche attive del lavoro, che anche in Italia ci sono, dopo inenarrabili vicissitudini politiche e lo scontro con una fortissima burocrazia, richiedono da una parte uno Stato efficiente, in grado di mettere in campo presso i Centri per l’impiego personale qualificato (economisti, psicologi del lavoro, statistici, esperti di marketing territoriale) al posto dei tanti laureati in legge; dall’altro richiede lavoratori che si impegnino nella riqualificazione e nella formazione e che siano disposti anche a cambiar lavoro e di spostarsi (fino a 50 km), se nella propria città non c’è.

Le leggi ci sono ed anche le risorse (fino ad € 5.000,00 pagati dallo Stato alle agenzie per la ricerca andata a buon fine di un posto di lavoro). Certo, il passaggio da un sistema assistenzialistico che a lungo andare produce consumo di ricchezza e solo povertà, ad un sistema europeo dove il lavoro si va a cercare ed il merito e la concorrenza contano, eccome, richiede un cambio radicale di mentalità da parte dei cittadini, ed anche un mutamento di percezione da parte di chi può influire. Parteggiare per il vecchio sistema, come nei fatti si è dimostrata “Report”, ostacola la crescita del paese. È bene che i cittadini comincino a rendersene conto.
 
Milano, 15 dicembre 2017