UNA RIFLESSIONE “POLITICA” IN MERITO ALLA SENTENZA 194/2018 DELLA CORTE COSTITUZIONALE
di Filippo Menichino
Anche nel diritto del lavoro ci stiamo distaccando dall’Europa. E questa volta ci si è messa d’impegno anche la Corte Costituzionale.
È ben noto che nel secolo scorso gli effetti di un licenziamento ingiustificato si connotava per un altissimo tasso d’imprevedibilità, non tanto per il merito spesso prevedibile, quanto per l’ammontare del risarcimento spettante al lavoratore ingiustamente licenziato. Il vecchio art. 18 prevedeva a titolo di risarcimento l’ammontare delle retribuzioni decorrenti dal licenziamento alla sentenza che ordinava la reintegrazione, e le cause potevano durare anni e anni! Lo spauracchio della reintegrazione, inoltre, veniva utilizzato sempre per ottenere risarcimenti molto variabili ed imprevedibili per la contabilità del datore di lavoro. Fu così che il legislatore dapprima nel 2012 e poi nel 2015 decise di sostituire la reintegrazione con delle indennità, determinate in modo chiaro e semplice perché collegate all’anzianità di servizio: due mensilità per ogni anno di servizio con il minimo di quattro mesi e ventiquattro nel massimo. Anche il Governo attuale (sic!) non mosse obiezioni al nuovo sistema di forfetizzazione del risarcimento, limitandosi soltanto ad aumentare le mensilità; da quattro a sei mesi per i primi tre anni di anzianità, fino a raggiungere trentasei mensilità dopo diciotto anni di servizio. Tutti d’accordo; anche la politica che aveva giurato di cancellare il Jobs Act accettava il sistema di risarcimento collegato all’anzianità. Ma i politici non avevano fatto il conto che c’è sempre qualcuno più puro che poi ti epurerà. E questo qualcuno era proprio la Corte Costituzionale!
Alla Consulta erano stati proposti da parte del Giudice remittente vari quesiti, non quello però della sostituzione della reintegrazione con una indennità patrimoniale. Segno, dunque che dopo decenni di contrasto all’arma bianca stava sedimentandosi nell’opinione pubblica il concetto che la reintegra nel posto non era più un diritto naturale, e che poteva ben essere sostituito con una indennità. Tra le questioni sollevate quella di maggior peso riguardava la differenziazione tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 cui venivano, come è noto, riservate tutele molto diverse e ci si chiedeva se ciò rispettasse i principi di uguaglianza. Altra questione era la diversità di trattamento tra i dirigenti (nei confronti dei quali non esiste alcuna tutela legale contro il licenziamento) e tutti gli altri dipendenti che invece avevano una ben diversa tutela contro il licenziamento. Per entrambe le questioni la Corte ha ritenuto non sussistere problemi di costituzionalità. E guarda caso, la Corte si è soffermata su un aspetto che, rispetto agli altri, sembrava non aver gran peso. Si trattava di decidere se il criterio di risarcimento forfetizzato uguale per tutti coloro che hanno la stessa anzianità, sia conforme ai principi di uguaglianza.
Con una decisione di cui francamente non si sentiva la mancanza, la Corte opta per l’illegittimità della norma. Essa sarebbe incostituzionale perché il criterio previsto dalla legge per liquidare un danno forfettizzato in relazione alla sola anzianità di servizio viola il principio di uguaglianza stabilito dall’art.3 Cost. Invero l’ammontare del risarcimento derivante dal licenziamento illegittimo potrebbe essere influenzato da una serie di fattori diversi; quali ad esempio, le dimensioni dell’azienda, il numero dei dipendenti, il comportamento e le situazioni delle parti, nonché dall’anzianità di servizio. Ne consegue che il prevedere, come faceva la legge, soltanto un fattore tra i tanti (l’anzianità di servizio), violerebbe i principi di uguaglianza tra i lavoratori di pari anzianità poiché ognuno di essi avrebbe titolo per far valere un fatto generativo di danno diverso. Di conseguenza, sempre secondo la Consulta, il risarcimento del danno non dovrebbe essere rigidamente predeterminato ma dovrebbe variare in relazione alla situazione personale di ciascuno, valutata, questa volta, dal Giudice nei limiti minimi e massimi previsti. In questo modo le finalità del legislatore (non solo del 2015, ma anche del 2018) che volevano un risarcimento certo e predeterminato e per così dire automatico, non possono più trovare applicazione. Oltre alla violazione del diritto di uguaglianza (art. 3 Cost.) la Consulta ritiene che la norma violerebbe il principio di ragionevolezza in quanto non idonea a risarcire adeguatamente il pregiudizio subito ed a dissuadere il datore di lavoro dal porre in atto licenziamenti illegittimi (art. 4 Cost). Conclude la Corte che il legislatore nel voler perseguire il risarcimento certo e predeterminato, si è spinto troppo a favore del datore di lavoro, con ciò sacrificando il diritto del lavoratore ad ottenere un risarcimento “personalizzato”. Questi sarebbero gli interessi in gioco, e si stenta a credere che per far prevalere uno di questi interessi la Corte non abbia esitato a distruggere un pezzo importante dell’assetto normativo e disattendere la volontà del legislatore.
“Personalizzare” il risarcimento tenendo conto dei comportamenti e situazioni delle parti: della dimensione aziendale o dell’anzianità di servizio, di per sé non dà nessuna garanzia di un risarcimento su misura. I parametri proposti dalla corte non hanno caratteristiche oggettive ed il risarcimento è rimesso alla prudente discrezionalità del giudice che dovrà scegliere tra sei e trentasei mensilità di risarcimento. Il range è molto alto ed è quindi molto probabile che casi del tutto uguali siano trattati in modo disuguale, in via d’approssimazione, con buona pace del principio di uguaglianza. È vero che con i parametri suggeriti il risarcimento potrebbe essere più mirato. Ma la discrezionalità del giudice non è di per se una garanzia di parità di trattamento. Si può concludere che per perseguire un utopia si è scelto di mandare a monte il collaudato sistema dell’anzianità di servizio praticato in tutta Europa sulla scorta di parametri neutrali, affidabili e di pratica attuazione. Forfettizzazione resa necessaria da una situazione davvero abnorme, sconosciuta negli altri paesi europei, che stava creando non poco intralcio al nostro sistema produttivo.
Sostiene la Corte che il legislatore abbia travalicato il limite di ragionevolezza per soddisfare unicamente l’interesse datoriale. Ma non è vero; perché il legislatore, nello stesso Jobs Act ha previsto modifiche sostanziali al Welfare a favore del lavoratore. È stata introdotta una indennità di disoccupazione (Naspi) di ammontare uguale all’indennità di CIGS. Ed è stato altresì previsto il contratto di ricollocazione che al Nord ha dato ottimi risultati (specie in Lombardia) e al Sud, molto meno a causa di un mercato del lavoro notoriamente fuori dalle regole e da una burocrazia impreparata per i nuovi compiti. Situazioni parzialmente negative che non possono, però essere imputate al legislatore, ai fini della valutazione costituzionale degli opposti interessi delle parti. Sembra che il richiamo costante al principio di uguaglianza accomunato al principio di ragionevolezza, non sia altro che un artificio retorico per creare suggestione. Invero, il principio di uguaglianza non avrebbe ragione di esistere se l’indennità risarcitoria fosse ragionevolmente adeguata allo scopo: adeguata per dissuadere il datore di lavoro dal porre in essere un licenziamento illegittimo, nonché adeguata per connotare un equo risarcimento. La Corte afferma che l’indennizzo almeno per le basse anzianità “potrebbe” (così dice la Corte) non essere idoneo allo scopo. Come si vede siamo nel campo dei giudizi e delle opinabilità. Ma se si ha riguardo ai fatti si può constatare che i datori di lavoro percepiscono la norma sufficientemente dissuasiva se, come è noto, anche le grandi aziende preferiscono assumere a tempo determinato piuttosto che esporsi al rischio di impugnazione del licenziamento. Inoltre l’adeguatezza del risarcimento deve essere considerata nel contesto del sistema di Welfare, confronto che la Corte non ha effettuato. Ed infine, per corrispondere ad un giudizio sensato di valore, l’adeguatezza deve essere confrontata con ciò che si pratica in tutta Europa ove le indennità, soprattutto per basse anzianità sono di ammontare inferiore, e dove si ritiene che debba essere il Welfare statale a proteggere il lavoratore che ha perduto il posto. Il datore di lavoro, in quei Paesi avrà una sanzione per aver esercitato male il proprio potere risolutorio, ma nessuno Stato europeo considera il licenziamento ingiustificato come un vero e proprio inadempimento con conseguenze risarcitorie piene. Nessuno, poiché in quei Paesi l’imprenditorialità è un valore da tutelare senza la quale non ci può essere lavoro; salvo, naturalmente i casi di rappresaglia e di discriminazione. Il caso ha voluto che proprio nei giorni in cui la nostra Corte Costituzionale decideva, anche quella francese decidesse su un caso perfettamente uguale; si trattava di decidere se violasse la Costituzione francese una norma che nello stabilire le indennità risarcitoria per il licenziamento illegittimo fosse parametrata soltanto sull’anzianità di servizio. La Corte francese, a differenza di quella italiana, rispose che no, non esisteva nessuna violazione dei principi di uguaglianza fra lavoratori, con ciò adeguandosi alla legislazione dei paesi europei che da cinquant’anni calcolano le indennità per il licenziamento ingiustificato sulla base dell’anzianità di servizio.
Insomma la decisione della Corte comporterà per l’imprenditore più costi, più contenziosi, più imprevedibilità, allontanando il paese dall’Europa, anche nel campo del diritto del lavoro. E ci si chiede se davvero valeva la pena scompaginare un criterio di calcolo che tutta l’Europa pratica, per perseguire l’utopia di un’uguaglianza tra i lavoratori che non può essere attuata dal giudice. A meno che … lo scopo primario della sentenza sia stata la volontà di riaprire ai Giudici la porta del processo, da cui erano stati precedentemente esclusi. In questo caso lo scopo è stato raggiunto. Ma a che prezzo? Si piange perché il Paese da vent’anni non cresce e la produttività è ferma, al di sotto di tutti paesi dell’OCSE. Una delle tante ragioni è l’eccesso di individualismo che rende difficile sottostare alle regole comuni di una società complessa e la nostra sentenza ne è un piccolo esempio. Anche qui c’è il desiderio di fare diversamente dagli altri, non programmare, non prevedere e non osservare le regole obbligatorie in un mondo competitivo. Esistevano regole civili, chiare, semplici da attuare; si sono abolite perché ognuno abbia il suo impossibile risarcimento individuale. Molti sono contenti di questa decisione, molti nelle università gioiscono perché giustizia è stata fatta.
Ma sono giudizi autoreferenziali che non vanno aldilà del proprio naso!
Milano, 13 dicembre 2018